Commenti

La politica senza Europa fa la fine dell’Italia del calcio

  • Abbonati
  • Accedi
CAMPAGNA ELETTORALE

La politica senza Europa fa la fine dell’Italia del calcio

C'è poco da essere allegri, osservando l'avvio della nostra campagna elettorale. I politici italiani continuano a pensare come se fossero all'interno di uno stato sovrano indipendente. Ne è un esempio la discussione in corso nei e tra i partiti. La politica che emerge da quella discussione è introversa oltre che ideologica. Guardiamo il centro-sinistra.

Per alcuni politici della sinistra-sinistra, ad esempio, l’approvazione da parte del precedente governo Renzi di provvedimenti come il Jobs Act o la Buona Scuola costituisce un ostacolo insuperabile per dare vita ad una coalizione con la sinistra-centro. Siccome quelle leggi, si dice, non sono di sinistra, occorre prima abiurarle per potere costruire una coalizione di sinistra. Ci si aspetterebbe che la critica di quelle leggi (di per sé del tutto legittima) fosse accompagnata da una proposta alternativa capace di raggiungere meglio gli obiettivi prefissi o acquisiti da quelle leggi. E soprattutto da una proposta che tenesse presente il contesto europeo in cui quelle leggi, e più in generale le politiche pubbliche nazionali, si sono sviluppate e si sviluppano. Ma di ciò non c’è traccia, né tra i critici e né (inspiegabilmente) tra i difensori di quelle leggi.

Oppure guardiamo il Movimento Cinque Stelle che ripropone con insistenza il reddito di cittadinanza come se l’Italia potesse spendere a suo piacimento. È chiaro che la proposta solletica l’appetito dell’elettorato clientelare ed assistenziale, ma possono dei leader politici parlare come se l’Italia non fosse membro dell’Eurozona e non avesse il secondo debito pubblico europeo? Infine guardiamo il centro-destra. Anche qui l’introversione abbonda. Ad esempio, si propongono roboanti tagli delle tasse, senza precisare quali spese pubbliche tagliare contemporaneamente e quali politiche adottare per gestire le conseguenze (soprattutto sociali) di quei tagli. Oppure si parla di una introdurre la lira senza eliminare l’euro, come se l’esistenza di una doppia moneta nel nostro Paese non avesse conseguenze anche per gli altri Paesi dell’Eurozona. Insomma, i nostri leader politici pensano come se potessero fare qualsiasi cosa una volta giunti al governo. Nella loro discussione non c’è la realtà in cui agisce l’Italia, cioè il contesto di interdipendenze del nostro Paese con altri paesi. Nel caso migliore, l’Europa è uno dei temi dell’agenda elettorale, non già la prospettiva con cui considerare tutti i temi di quest’ultima.

Naturalmente, la predisposizione all’introversione non è solamente della politica italiana. Basti pensare alla Brexit e al referendum del giugno 2016 con cui il Regno Unito decise di uscire dall’Unione europea (Ue). La élite politica britannica pensò allora che fosse possibile riportare il proprio Paese alla condizione di stato indipendente nonostante quarant’anni di integrazione sovranazionale. Il risultato dell’introversione britannica è sotto gli occhi di tutti. Instabilità del governo, confusione sulle scelte da fare, ridimensionamento di attività finanziarie ed economiche, oltre che scientifiche e accademiche, perdita di talenti e opportunità. Oppure si pensi alla Grecia del luglio 2015, quando un gruppo di politici introversi propose di tenere un referendum sulle condizioni economiche imposte al Paese per ottenere gli aiuti finanziari necessari ad evitarne il fallimento. Come ci si poteva aspettare, il referendum espresse una maggioranza nettamente contraria a quelle condizioni, ma l’esito politico fu esattamente l’opposto. La Grecia dovette accettare condizioni ancora più severe per non fallire come stato nazionale. Dunque, i politici, non solo quelli italiani, fanno fatica a riconoscere il radicale cambiamento del contesto in cui agiscono. E cioè che lo stato nazionale non esiste più in Europa. Il processo di integrazione ha portato ad una tale interdipendenza tra gli stati nazionali europei da trasformarli in stati membri dell’Ue, anche quando non ne fanno formalmente parte (come nel caso della Norvegia). Sessant’anni di integrazione hanno creato una tale intersecazione di pratiche e regole, sia orizzontalmente tra gli stati che verticalmente tra ognuno di loro e Bruxelles, da rendere implausibile la loro dissezione in una prospettiva di secessione nazionale. Il parlamento di Westminster approverà prima o poi la legge per recidere i rapporti tra il Regno Unito e l’Ue (la European Union Withdrawal Bill), ma non basterà una legge per recidere quei rapporti. La compenetrazione (amministrativa, regolativa, legislativa, giudiziaria o culturale) di quel Paese con l’Europa è andata così avanti da rendere improbabile il suo ritorno alla condizione di stato vestfaliano.

Se si vuole evitare di ripetere il dramma del Regno Unito, allora occorre che le élite politiche italiane si liberino in fretta della propria introversione. La politica nell’interdipendenza è strutturalmente diversa rispetto alla politica nella indipendenza. La posta in gioco delle prossime elezioni è il governo di un Paese dell’Ue, non già il governo di uno stato nazionale. Le scelte nazionali debbono fisiologicamente interiorizzare le logiche dell’appartenenza ai regimi di politiche pubbliche interdipendenti. Quelle logiche consistono sia in vincoli che in opportunità. È impossibile stare in quei regimi, ad esempio, con un debito pubblico come il nostro. Invece di una discussione introversa e ideologica, tutti i partiti dovrebbe confrontarsi con quel vincolo. E cioè, come ha detto Mario Draghi l’altro ieri a Francoforte, che occorre mettere in ordine le nostre case fiscali ora che la ripresa procede, ma senza “aspettare che la crescita riduca gradualmente il debito”.

Al contrario, nella politica migratoria, l’Ue è un’opportunità per difendere meglio i nostri interessi nazionali. Il voto del Parlamento europeo dell’altro ieri, favorevole ad una riforma dell’Accordo di Dublino in direzione del superamento del principio che spetta al primo Paese d’arrivo prendersi cura del migrante, rappresenta un passo in avanti per noi. Per questo motivo è del tutto ingiustificabile che abbiano votato a favore della riforma i parlamentari italiani del centrosinistra e centrodestra, ma contro quelli della Lega e del Movimento Cinque Stelle. E lo stesso vale, ad esempio, per la politica sociale necessaria per ridurre le inaccettabili ineguaglianze che si sono formate nel nostro Paese con la Grande Recessione. La decisione presa a Goteborg venerdì scorso, dai capi dei governi nazionali e delle istituzioni dell’Ue, di dare vita ad un Pilastro europeo per i diritti sociali rappresenta una opportunità per promuovere una politica sociale più efficace anche in Italia.

Dunque, l’interdipendenza implica vincoli ma anche opportunità. Ciò non significa (per essere chiari) che il sistema dell’interdipendenza (in particolare nell’Eurozona) vada accettato così come è. Anzi. Occorre riformare quel sistema ai fini di una maggiore separazione tra il livello delle politiche (e responsabilità) nazionali e quello delle scelte (e responsabilità) europee. Tuttavia, per riformarlo, occorre prima di tutto comprenderlo. Se è finita l’epoca della politica dell’indipendenza, come si può rivendicare il ritorno all’Art. 18 dello Statuto dei lavoratori o alla lira o all’abbassamento generalizzato dell’età per andare in pensione, senza considerare le loro conseguenze sulle capacità del nostro Paese di governare la propria interdipendenza? Non si può riformare l'interdipendenza con dichiarazione unilaterali di indipendenza, sia nella politica (come hanno cercato di fare i mediocri rappresentante del governo catalano) che nelle politiche. Se non si vuole che le prossime elezioni si riducano ad un teatro dell’introversione, con la conseguenza di consegnare il Paese al governo di organismi esterni mobilitati dall’interdipendenza, è indispensabile che i leader politici estroversi facciano sentire la loro voce, fermando la deriva verso la fallace politica dell’indipendenza. Se quei leader non si faranno sentire, l'Italia della politica non farà una fine diversa da quella dell'Italia del calcio.

© Riproduzione riservata