Caro De Biase,
nel lavoro del futuro che piace a me vorrei:
1. che «lavoro» continuasse a essere la parola chiave per connettere le persone con la dignità, il rispetto, l’identità, il senso e il significato, l’autonomia, la possibilità di pensare e di fare cose. Lo so, sembra scontato, ma forse non lo è.
2. che sulla via dell’innovazione e del lavoro l’Italia ritrovasse carattere, senso e identità. Riconnettesse società e istituzioni. Arginasse il deterioramento dello spirito pubblico. Diventasse più competitiva, più innovativa, più remunerativa, meno ingiusta e diseguale.
3. che le relazioni tra le persone e le organizzazioni, e i loro significati, venissero lette dal punto di vista della conoscenza. Si riconnettessero il fare e il pensare, la maestria e la bellezza. Si valorizzasse il lavoro ben fatto e si ridefinisse il nesso tra le mani, la testa e il cuore. Si affermasse l’Italia dell’intelligenza collettiva, della bellezza che diventa ricchezza, della cultura che diventa sviluppo, della storia che diventa futuro.
4. che il concetto di lavoro diventasse molto più ampio e abbracciasse lavori che restano secondo me produttivi anche se non producono plusvalore e profitto.
Penso a lavori sociali, lavori di cura, lavori creativi, lavori educativi, in ogni caso lavori veri e necessari in una società che è avanzata non solo perché permette di utilizzare tecnologie sempre più sofisticate ma anche perché non lascia nessuno indietro e si propone di garantire a tutti i suoi componenti la possibilità di avere un proprio autonomo punto di vista e di farlo valere nello spazio pubblico.
In merito alle questioni relative alla compatibilità e ai costi lascio da parte discorsi più lunghi e complessi rispetto alle scelte di fondo che a livello europeo e mondiale bisognerebbe fare su questo terreno e faccio presente – a puro titolo di esempio e in maniera necessariamente approssimativa – che se io decidessi di tenere a casa mia piuttosto che farlo andare in carcere un ragazzo minorenne di un quartiere napoletano o milanese che ha compiuto un reato e lo Stato mi versasse la metà della retta giornaliera che spende per tenerlo dietro le sbarre credo che sarebbe una cosa buona per lo Stato, per il ragazzo e per me, e lo stesso dicasi nel caso di familiari da curare o a cui badare, naturalmente previa formazione dei richiedenti e solo nei casi di reati e di malattie minori, e fermo restando che – sempre per restare sull’improbabile esempio – carceri e ospedali sono così sovraffollati che non ci sarebbe alcun rischio per i posti di lavoro interni alle strutture.
5. che si lavorasse di meno a parità di salario, non sta a me dire quanto di meno, quello che serve. Sì, l’orario di lavoro settimanale al tempo dell’Industria 4.0, della robotica e di tutto il resto non può essere più di 40 ore, altrimenti non ce la si fa. Ora, prima che qualcuno mi consideri un pericoloso rivoluzionario, ricordo che il signor Henry Ford, sì, proprio lui, quello della catena di montaggio e della Ford T di qualunque colore purché fosse nera, aumentò il salario dei suoi 100mila e passa dipendenti del 15% e ridusse la settimana lavorativa di una giornata, e non perché fosse uno stinco di santo ma perché voleva che le sue auto fossero comprate anche dai suoi dipendenti, e da quelli come loro, e che insomma per farsi venire la voglia ci volevano sia un po’ di soldi in più che un po’ di tempo in più per andarci in giro. Restando ancora su questo tono leggero, dato che il signor Tim Cook e i suoi competitor continuano a sfornare carovane di nuovi oggetti del desiderio all’anno, se non avremo tutti un po’ di soldi e di tempo in più, chi li comprerà? Saranno i robot i nuovi consumatori di massa? Basteranno loro e i ricchi a mantenere la domanda? Io spero di no, ma insomma la discussione è aperta e la ricerca che si farà magari ragionerà un poco anche di questo.
Vincenzo Moretti
Caro Moretti,
è soprattutto l’assunto iniziale a essere in discussione. Il rapporto tra il lavoro e la dignità o l’identità delle persone è un argomento da esplorare. Questi aspetti sono meno stabili di quanto appaia a prima vista. Un tempo, l’acquisto dell’automobile era un gesto identitario. Oggi sembra che ai ragazzi interessi poco. Accedono al servizio di trasporto con una piattaforma quando serve. Ebbene: domani il lavoro sarà ancora un fatto identitario o sarà come un bancomat evoluto che oltre al pin vuole anche lo svolgimento di una qualche mansione definita da una piattaforma? Ho l’impressione che intorno a queste due ipotesi si concentrino molti progetti di società futura.
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