Ormai da diversi anni nelle mie lezioni del corso di “Gestione del portafoglio” dedico una parte piuttosto rilevante alla finanza comportamentale e pertanto a Richard Thaler.
Nel mio programma, dopo aver descritto gli investitori come razionali e con comportamenti modellizzabili in termini di ottimizzazione matematica, evidenzio come la prospettiva psicologica in finanza giochi un ruolo fondamentale. Per capire perché è rilevante la psicologia nella comprensione dei mercati finanziari parto sempre dal primo significativo lavoro di Thaler sulla finanza comportamentale “Does the stock market overreact?” (1985). Thaler con De Bondt approfondisce un comportamento ricorrente degli investitori ben identificato dalla ricerca sperimentale in psicologia, e in particolare dalla prospect theory di Kahneman e Tversky: si tratta della sovra-reazione alle notizie inaspettate e drammatiche (overreaction). Nell’intento di studiare l’efficienza dei mercati, De Bondt e Thaler analizzano se tale comportamento abbia un impatto sui prezzi.
Questo lavoro, come avrà modo di scrivere lo stesso Thaler, è stato assai controverso. Come controversa, del resto, è la finanza comportamentale in quegli anni. La loro evidenza empirica mette in discussione il paradigma dominante mostrando, con riferimento al mercato americano, come l’errore (bias) cognitivo possa produrre un mispricing prevedibile. La presenza di overreaction genera fenomeni di inversione nei prezzi: le azioni che in passato hanno beneficiato dei maggiori aumenti di prezzo hanno una probabilità più alta di subire diminuzioni di prezzo nei periodi successivi e viceversa. Su questa base i due studiosi americani hanno quindi ipotizzato una strategia di investimento capace di generare rendimenti anomali assumendo una posizione di vendita allo scoperto sui titoli che hanno sperimentato nel passato un aumento dei prezzi (winner) e una posizione di acquisto sui titoli che hanno subito una diminuzione nello stesso periodo (loser).
La convinzione di Thaler – che sarebbe opportuno trasmettere più diffusamente nelle aule universitarie – è che sia possibile arricchire la nostra comprensione dei mercati finanziari aggiungendo l’elemento umano e comportamentale. Il suo tratto distintivo è di aver messo in discussione – da economista – il paradigma dominante, la cosiddetta standard finance. Quest’ultima, nata sul finire degli anni Cinquanta, si è sempre basata sull’assunzione che l’investitore prenda decisioni secondo gli assiomi della teoria dell’utilità attesa e che sia in grado di formulare previsioni non distorte. Molti premi Nobel, a partire dagli anni ’50, hanno offerto contributi in tal senso: mi riferisco a Harry Markowitz, a Merton Miller e Franco Modigliani, a William Sharpe, e a Eugene Fama. Questi appena citati sono i principali esponenti del paradigma dominante, dove spesso si ferma il tipico percorso in studi economici o finanziari.
Pensando a un innovativo e alternativo approccio di comprensione della finanza, credo sia imprescindibile considerare il comportamento umano non come una pura ottimizzazione matematica bensì introducendo la psicologia. Questa convinzione è alimentata dall’irrompere della finanza comportamentale. Se negli anni Ottanta le persone sono descritte come irrazionali, ossia come decisori che soccombono a errori cognitivi e comportamentali, che li fanno deviare da obiettivi razionali, oggi la nuova frontiera della finanza comportamentale descrive le persone come normali. Obiettivi e comportamenti “normali” e non irrazionali, ancor più che errori cognitivi e comportamentali, sottendono risposte a importanti temi di finanza, quali costruzione e gestione di portafoglio, asset pricing e mercati efficienti: in questo senso esemplificativo è il volume di Statman della Santa Clara University “Finance for normal people” pubblicato nel 2017.
Uno dei limiti spesso attribuiti alla finanza comportamentale è la mancanza di un modello teorico coerente, capace di integrare psicologia e economia, e quindi in grado di spiegare la complessa evidenza empirica che caratterizza i mercati finanziari. Per questo è significativo l’emergere in questi ultimi anni di una corrente di studiosi che tenta di “teorizzare” la finanza comportamentale. Ne è un esempio il lavoro di Daniel, Hirshleifer e Subrahmanyam che nel 1998 disegna un modello di asset pricing in grado di spiegare la sovra-reazione del mercato finanziario nel lungo periodo e la sotto-reazione nel breve periodo sulla base di due comportamenti ricorrenti dell’investitore: overconfidence, ossia l’eccessiva fiducia dell’investitore nelle sue informazioni private e biased self attribution, vale a dire l’attribuzione dei buoni risultati alle proprie abilità e dei cattivi risultati a fattori esterni.
All’Università Cattolica stiamo ragionando per sperimentare innovativi percorsi di ricerca e di formazione, che, coinvolgendo in prima battuta i nostri psicologi, possa favorire lo sviluppo e la condivisione di una nuova fase della finanza comportamentale.
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