Sia Danièle Nouy sia Mario Draghi chiedono un maggior impegno nella gestione delle sofferenze da parte delle banche italiane, sofferenze che sono ancora di importo notevole. L’impatto delle eventuali vendite ai prezzi attuali sarebbe molto penalizzante e costringerebbe a nuovi interventi, o sul capitale (aumenti) o su prodotti ibridi. Da non trascurare che le cessioni dei deteriorati fanno capo nella maggior parte dei casi a società straniere, per cui non solo vengono cedute operazioni di natura finanziaria, ma verrebbero ceduti anche gli immobili posti a garanzia dei mutui originari, in pratica ricchezza che va vero l’estero. In questi giorni abbiamo perso una opportunità con l’Ema, molti parlano di sfortuna, ma io credo che si dovesse fare di più, in queste occasioni chi arriva secondo ha solo più rammarico per aver perso, e non parliamo solo del prestigio, ma di opportunità di lavoro diretto e di indotto, molto peggio del mondiale di calcio. Cresciamo meno degli altri, non cogliamo le opportunità che ci si presentano e non riusciamo a ridurre il debito in maniera strutturale e per non farci mancare nulla Banca d’Italia ci informa con nonchalance che il debito pubblico da agosto a settembre è aumentato di 4,4 miliardi, inoltre dagli organi di informazione apprendiamo che il nostro debito strutturale non diminuisce, ma abbiamo ottenuto da Bruxelles di ridurre il deficit strutturale dello 0,3% anziché dello 0,6%. Osanniamo la nostra crescita del Pil dello 0,5% quando la Germania cresce dello 0,8%, il 60% in più, e la media europea cresce dello 0,6%, certo cifre così piccole enfatizzano le percentuali, ma le differenze ci sono. Dunque i richiami di Draghi e di Nouy e, da ultimo, di Jyrki Katainen non sono proprio campati in aria. La speranza è che i sacrifici del nostro Paese portino a qualche risultato positivo, ma al momento sembra di essere a scuola: prendiamo bacchettate da tutti. Ad maiora semper.
Lettera firmata
Falconara Marittima (An)
L’esperienza dell’Expo dimostra che per l’Italia non è fatale prendere bacchettate. È ben vero che l’infelice esito della vicenda Ema non può essere attribuita solo al caso (se avessimo trovato un paio di voti in più, la monetina non sarebbe stata necessaria), ma credo che recriminare (e poi, contro chi?) sia inutile e fuor di luogo. Anche in questo caso, lo spirito di squadra c’è stato, anche se dubito che a livello nazionale sia stata davvero colta l’importanza di ospitare in Italia l’Ema.
Sui media, non mi pare che questa operazione sia stata considerata una priorità strategica per il Paese, che si disperava assai di più per le sorti della Nazionale. Non credo che la questione sia da sottovalutare: a livello istituzionale, quando c’è bisogno, bene o male, riusciamo a presentarci uniti; ma non costruiamo in casa opinione pubblica, senso di attesa e di partecipazione; guardiamo a questo genere di scadenze con indifferenza, quando non con invidia per l’interessato o con decisa ostilità. E all’estero se ne accorgono.
Lo stesso rischiamo di fare nella gestione dell’economia: su queste colonne, Dino Pesole ha ieri collocato il confronto con la Commissione nell’ambito (anche) di un “gioco delle parti” che, ormai ripetitivo, ha perso ogni tratto di drammaticità, anche perché ancorato a un copione frusto che nessuno più rispetta sul serio.
È un’analisi interessante che mi preoccupa proprio perché la prendo sul serio: di nuovo, se nessuno (a parte poche e lodevoli eccezioni, tra le quali questa testata) dice la verità all’opinione pubblica, come possiamo pretendere che questa poi accetti con entusiasmo interventi (o non interventi) come nel caso delle pensioni?
Le prospettive che vengono da Francoforte su nuove regolamentazioni bancarie sono certo preoccupanti per le banche italiane; ma sono un prezzo da pagare per l’obiettivo (spesso invocato) della condivisione dei rischi, che sta a cuore anche al presidente francese Emmanuel Macron. Se l’Europa imboccasse questa strada, sarebbe vano recriminare dopo sulla malvagità renana, quasi che l’equilibrio dei conti sia una fastidiosa fissazione altrui, e non un’indispensabile condizione per lo sviluppo nostro.
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