Nel suo discorso inaugurale tenutosi al XIX Congresso Nazionale del Partito comunista cinese tenutosi a ottobre, il presidente Xi Jinping ha dichiarato che la Cina ha «varcato la soglia ed è entrata in una nuova era». Ha poi promesso di costruire un «grande Paese socialista moderno» che sarà prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e splendido entro la metà del secolo, sotto la guida e il controllo del Partito comunista, ma aperto al mondo.
Si tratta di aspirazioni audaci, ma se c’è qualcuno nella posizione di farlo, quello è Xi, ora da molti considerato il leader cinese più potente dopo Mao Zedong. I dettagli del piano di Xi restano però poco chiari. Quanto ci vorrà prima che la Cina si modernizzi in modo efficiente in questa nuova era?
Tagliare col passato?
Forse si tratta di una nuova era, ma uno dei trend che la definiscono è già in atto: la transizione a doppio binario della
Cina da economia pianificata a economia di mercato. Continuare a compiere progressi su questo fronte è cruciale per incentivare
la stabilità, capitalizzare i vantaggi comparativi della Cina e stimolare un rapido sviluppo socioeconomico, così aprendo
la strada a una profonda riforma strutturale.
Da quando è iniziata la transizione nel 1978, la Cina ha compiuti passi importanti, tra cui la liberalizzazione di settori che generano posti di lavoro come il manifatturiero e l’attuazione di riforme rurali. Eppure, dando sempre la massima priorità alla stabilità, i leader cinesi hanno abbracciato un approccio incrementale, mantenendo al contempo molte delle politiche interventistiche tipiche di un’economia pianificata, compresa la tutela e il sovvenzionamento delle grandi aziende pubbliche.
Nei primi anni della transizione, le imprese statali ad alta intensità di capitale che il governo cinese sosteneva si sono sottratte ai vantaggi comparativi del Paese, e non sarebbero state in grado di sopravvivere in un mercato aperto competitivo. Ma grazie alla rapida crescita della Cina e all’accumulo di capitale, molte di quelle imprese sono ora diventate redditizie.
È giunto il momento di rimuovere sovvenzioni e tutele con effetti distorsivi. Solo con un cambiamento di questo genere, insieme
a delle profonde e durature riforme istituzionali, Xi potrà raggiungere uno dei suoi obiettivi dichiarati: consentire ai mercati
di rivestire un “ruolo decisivo” nell’allocazione delle risorse – cruciale per l’economia moderna che intende costruire.
La storia infinita della crescita
Per molti versi la Cina poggia già su solide basi. Negli ultimi 38 anni il Pil del Paese è cresciuto a un tasso del 9,6% –
una risultato senza precedenti. E l’economia riserva ancora un considerevole potenziale di crescita.
Allo stato attuale, esiste un ampio divario tra il reddito pro capite in Cina, un Paese ad alto-medio reddito, e quello delle economie avanzate. Questo gap rappresenta la differenza della produttività del lavoro e quindi evidenzia le opportunità di innovazione tecnologia e riqualificazione industriale capaci di rafforzare la crescita.
La Cina è già leader mondiale in alcuni settori, come l’alta velocità, l’energia rinnovabile e gli elettrodomestici. Garantirsi il primato in altri settori avanzati, come l’e-commerce e i dispositivi mobili, che hanno brevi cicli di produzione e richiedono ingenti investimenti di capitale umano – sarà fondamentale per consentire al Paese di continuare a prosperare. Fortunatamente, la Cina non deve far fronte a nessuna carenza di talento locale e vanta un massiccio mercato domestico per i nuovi prodotti.
Sinora la Cina non è riuscita a sfruttare al massimo queste attività e continua a restare un passo indietro rispetto all’Occidente in termini di qualità – e quindi di prezzo – dei prodotti che fabbrica. Eppure, se la Cina riuscisse a colmare questo divario, avrebbe il potenziale per conseguire una crescita economica annua pari all’8%.
Altre economie hanno dimostrato di riuscirci. Il Pil pro capite cinese (in termini di parità del potere di acquisto) nel 2008 era il 21% di quello degli Usa – lo stesso rapporto registrato dal Giappone nel 1951, da Singapore nel 1967, da Taiwan nel 1975 e dalla Corea nel 1977. Tutte queste economie hanno mantenuto una crescita dell’8-9% per i successivi 20 anni e non hanno nemmeno avuto l’opzione, a differenza della Cina, di trarre vantaggio dai settori ad alta intensità di capitale umano con brevi cicli di produzione.
Alcuni hanno sostenuto che la cieca corsa alla crescita del Pil sia un gioco rischioso, dichiarando che le sfide cui deve
ora far fronte la Cina sono il risultato della sua rapida e prolungata espansione economica. Eppure l’India cresce più lentamente
della Cina da decenni e deve fare i conti con un livello più grave di inquinamento, disuguaglianza tra redditi e corruzione.
In sintesi, finché il potenziale lo consentirà, ha senso che i Paesi in via di sviluppo perseguano un alto tasso di crescita.
La riforma sul filo del rasoio
Ovviamente, questo non significa che la Cina debba essere imprudente. Per trasformare il potenziale in realtà servono le giuste
condizioni sia sul fronte della domanda che dell’offerta. Se la Cina deve soddisfare il suo potenziale in modo sostenibile,
le politiche di innovazione sul fronte dell’offerta dovrebbero essere controbilanciate da iniziative sul fronte della domanda.
La crescita può essere supportata a livello di domanda attraverso le esportazioni, gli investimenti e i consumi. In un momento di crollo della crescita annua dell’export – scesa dal 16,5% registrato in media tra il 1978 e il 2014 a un valore inferiore allo zero nel 2015-2016 – molti puntano sui consumi come principale propulsore della crescita cinese, sostenendo che siano più sostenibili degli investimenti.
Ma un aumento dei consumi dipende dall’incremento dei redditi, che a loro volta dipendono da un aumento di produttività del lavoro. E quest’ultima richiede costante innovazione tecnica e riqualificazione industriale. Senza investimenti non può esserci né innovazione né riqualificazione, né tanto meno una crescita dei redditi o dei consumi.
Ciò premesso, la Cina non dovrebbe puntare a sostituire gli investimenti con i consumi, ma a migliorare l’efficienza degli investimenti, in modo tale da appoggiare la crescita di produttività, la creazione di posti di lavoro e gli aumenti salariali necessari per sostenere i consumi domestici. Ciò richiederà, tra le altre cose, che la Cina affronti gli squilibri sul fronte dell’offerta, compresi l’eccessivo indebitamento e la sovraccapacità.
Allo stesso tempo, i leader cinesi devono prestare molta attenzione alle necessità e alle aspettative della classe media emergente.
Xi ha chiarito che la sua visione deve essere trasmessa dal potente partito comunista, che dovrebbe «opporsi in modo risoluto
a tutte le dichiarazioni e azioni che minano, falsano o negano» la sua leadership o il sistema socialista cinese. Se il partito
comunista deve mantenere la legittimità popolare necessaria a corroborare la sua autorità, le iniziative di riforma devono
essere incentrate sulle persone, puntare a soddisfare le crescenti aspettative della gente su standard di vita, qualità ambientale,
trasparenza, governance e libertà di parola.
Le nuvole oltre le frontiere
Ovviamente, la Cina non sta riformando la propria economia in uno spazio vuoto. Ci sono una serie di sfide che attendono l’economia
globale. Ventisei anni dopo lo scoppio della bolla economica, il Giappone lotta per garantire una crescita robusta o per sfuggire
in pieno alla deflazione. L’Unione europea sembra finalmente emergere dalla propria recessione, iniziata con la crisi economica
del 2008, ma la ripresta resta fragile, con un Pil che cresce in media all’1% circa e una disoccupazione tuttora a livelli
elevati. Anche se gli Usa stanno andando un po’ meglio, il suo Pil cresce appena del 2% l’anno, e né il Fondo monetario internazionale né la Banca mondiale si aspettano che raggiunga il 3% prima del 2020.
Una ragione chiave per questo stato dei fatti è che i Paesi sviluppati non siano ripetutamente riusciti a perseguire le difficili ma necessarie riforme strutturali. I politici sanno che le riforme strutturali sono fondamentali per rafforzare la competitività a lungo termine; ma temono le ripercussioni politiche dell’impatto a breve termine su investimenti, occupazione e consumi. In tempi di lenta crescita e crescente disoccupazione, però, tali riforme diventano solo più difficili.
In Giappone, il primo ministro Shinzo Abe ha realizzato riforme strutturali come la terza “freccia” all’arco dell’Abenomics (le prime due sono lo stimolo fiscale e l’allentamento monetario). Eppure, dopo cinque anni, la terza freccia resta nella faretra, e la crescita annua del Pil si attesta appena all’1%. Temo che l’inerzia a lungo termine che sta vivendo il Giappone possa affliggere un numero crescente di Paesi avanzati.
Nulla di tutto questo sarà positivo per la stabilità politica. Nel Regno Unito, il voto sulla Brexit fu seguito, un anno dopo, da un’inaspettata sconfitta del Partito conservatore nelle elezioni anticipate. La vittoria di Donald Trump nelle presidenziali del 2016 ha scioccato il mondo. La cancelliera tedesca Angela Merkel sta vigorosamente lottando per formare un governo di coalizione.
Di fronte a una ripresa anemica, alla pressante disoccupazione e alla crescente disuguaglianza, gli elettorati dei Paesi avanzati voteranno naturalmente per il cambiamento. La Cina deve essere pronta a questo – e alle incertezze che seguiranno. Quello che non deve fare è lasciarsi prendere dal panico. Restare calma e perseguire politiche smart e lungimiranti resta il miglior modo per garantire che la Cina non finisca sotto il fuoco incrociato dello sconvolgimento internazionale.
Mettere l’America prima di tutto
Vale soprattutto per gli Usa che, malgrado la loro attuale ritirata dalla leadership globale, restano il maggiore player internazionale
– e l’unico partner più importante della Cina. Se la Cina deve conseguire il “grande rinnovamento” della nazione cinese auspicato
da Xi, i suoi esponenti dovranno evitare conflitti – e controversie commerciali – con gli Usa, facendo leva sulla complementarietà
economica.
In Cina il reddito pro capite è all’incirca un quarto di quello degli Usa in termini di parità del potere d’acquisto, e un settimo a livello nominale, mentre la produttività media del lavoro è bassa. Ciò rende meno probabile una competizione diretta tra Usa e Cina in settori quali ad esempio quelli ad elevato contenuto elettronico, a forte valore aggiunto e ad alta intensità di capitale. Pertanto, diversamente dall’Unione europea e dal Giappone, la Cina raramente si troverà intrappolata nella competizione internazionale con gli Usa, perché le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti riguardano principalmente prodotti a basso valore aggiunto (un punto a cui il presidente Donald Trump sembra non voler dare ascolto).
Di fatto, non solo i vantaggi comparativi di Usa e Cina escludono la competizione diretta, ma il mercato dell’uno di fatto consente all’altro di sfruttare al massimo i propri punti di forza. Per le aziende americane, il mercato cinese – il più grande del mondo, in termini di parità del potere di acquisto, che contribuisce per oltre il 30% all’espansione annua del mercato globale – è troppo lucrativo per potervi rinunciare. Considerando che le maggiori aziende americane sono spesso i maggiori finanziatori delle elezioni americane, i politici americani sono fortemente incentivati a mantenere – e a rafforzare – i legami economici con la Cina.
Non filerà tutto liscio nella relazione bilaterale, anzi. Gli Usa ultimamente si sentono minacciati dalla Cina, la cui influenza internazionale si sta espandendo di pari passo con la sua economia. Ma qualunque rivalità geopolitica emerga non deve minare il rapporto commerciale bilaterale reciprocamente vantaggioso. Altrimenti sarà alquanto difficoltoso per la Cina continuare a potenziare la propria economia e realizzare il potenziale di crescita. Solo comprendendo quanto ciò sia indispensabile per le imprese americane, la Cina potrà mantenere legami amichevoli con gli Usa, anche se dovessero emergere inevitabili sfide politiche, incluse quelle radicate nella continua crescita del peso geopolitico cinese.
Governance globale da resettare
Ma attenzione: la Cina fa bene a cercare di ricoprire un ruolo mondiale di primo piano. È di gran lunga l’economia più grande
del mondo in termini di parità del potere di acquisto, e diverrà la più grande economia in termini nominali prima del 2030.
È ragionevole che il crescente peso economico della Cina sia accompagnato da una maggiore influenza sulla governance globale.
L’attuale ordine internazionale ha contribuito a una relativa pace e stabilità da quando fu creato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Eppure è stato dominato dai Paesi occidentali che l’hanno creato. Non ha solo messo gli interessi di questi Paesi davanti a quelli degli altri, ma ha anche assecondato i loro approcci rispetto a sviluppo e governance.
Pochissimi Paesi in via di sviluppo ce l’hanno fatta con questo sistema. Nel 1960 c’erano 101 economie a medio reddito, nel 2008 solo 13 avevano raggiunto lo status di Paese ad alto reddito. E il fatto grave è che dal 1945 solo due delle 200 economie in via di sviluppo del mondo – Taiwan e Corea del Sud – sono passate dallo status di Paese a basso reddito a Paese ad alto reddito. (Se tutto andrà secondo i piani, la Cina sarà il terzo entro il 2025).
Nessuna economia in via di sviluppo – eccetto forse quelle economicamente e geograficamente vicine all’Europa occidentale – può farcela attenendosi alle prescrizioni di sviluppo delle economie avanzate. È per questo che serve un nuovo modo di concepire lo sviluppo, che prenda in considerazione le lezioni di quei Paesi – dalle quattro “Tigri asiatiche” alla Cina stessa – che ce l’hanno fatta semplicemente ignorando le strategie di sviluppo avanzate dall’Occidente.
Negli anni ’50 e ’60 si diceva ripetutamente ai Paesi in via di sviluppo che se intendevano far salire redditi e produttività del lavoro al livello del mondo avanzato, dovevano raggiungere lo stesso grado di industrializzazione. Quindi invece di continuare a esportare prodotti agricoli e minerali e a importare moderni manufatti, molti si sono tuffati nelle profonde acque del settore automotive, dell’acciaio e della produzione di apparecchi. Alcuni non sono mai risaliti in superficie.
Negli anni ’80, quando la strategia di sostituzione dell’import si rivelò un fallimento, si diceva ai Paesi in via di sviluppo che il problema risiedeva nel fatto che non fossero totalmente economie di mercato. Dovevano, in base alla logica neoliberale del cosiddetto Consenso di Washington, ridurre immediatamente l’intervento della mano pubblica e perseguire privatizzazione, deregolamentazione e liberalizzazione del commercio.
Ma le economie in via di sviluppo più attive sono quelle che hanno rifiutato queste prescrizioni. Il Giappone e le quattro Tigri asiatiche hanno perseguito la produzione tradizionale su scala ridotta e a largo impiego di manodopera, invece che la sostituzione dell’import. La Cina ha adottato un approccio graduale a doppio binario per realizzare la transizione da economia di piano a economia di mercato. E anche Vietnam e Cambogia – altri due Paesi asiatici che hanno raggiunto uno sviluppo stabile – si sono opposti alla convenzionale saggezza neoliberale.
Un trend simile è riscontrabile nell’Est Europa. In Polonia e Slovenia, le grandi aziende pubbliche non privatizzate contribuivano quasi per il 30% del Pil – non inferiore alla media cinese. Anche Uzbekistan e Bielorussia, che registrano le migliori prestazioni economiche tra i Paesi ex-sovietici (a parte i tre stati baltici), si affidano alle aziende non privatizzate.
Non esiste una strategia per lo sviluppo che sia valida per tutti. I Paesi di successo pensano a quello che possono fare bene con ciò che hanno e creano le condizioni per incentivare questi settori. Ed è quello che ha fatto la Cina – ed è proprio la Cina, in veste di player sempre più influente sulla scena mondiale, a dover fare in modo che ci riescano anche gli altri paesi in via di sviluppo.
La “Belt and Road Initiative” di Xi, che promette un massiccio sviluppo delle infrastrutture in Eurasia e in Africa, si muove
in questa direzione. In più, la Cina può avvalersi del suo impegno con i Paesi di tutto il mondo per diffondere nuove idee
sul fronte dello sviluppo e della governance. La Cina ha un chiaro interesse affinché funzionino: portare la prosperità nel
mondo in via di sviluppo sarebbe il miglior modo per Xi di raggiungere quello che lui – e ora il partito comunista cinese
– definiscono il “Sogno cinese” di realizzazione individuale e grandezza nazionale.
Traduzione di Simona Polverino
Justin Yifu Lin, ex capo economista della Banca mondiale, è direttore del Center for New Structural Economics, preside dell’Institute of South-South Cooperation and Development, e preside onorario della National School of Development, Università di Pechino. I suoi ultimi libri sono Going Beyond Aid: Development Cooperation for Structural Transformation e Beating the Odds: Jump-starting Developing Countries.
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