Si dice che l’economia abbia fondato la fortuna dei suoi teoremi sull’ipotesi di comportamento razionale (massimizzante) e auto-interessato (egoista). Inizialmente, con Adam Smith, l’ipotesi non aveva pretese descrittive, ma era destinata a mostrare come nel mercato potessero realizzarsi scambi mutuamente vantaggiosi nella situazione più difficile possibile: quella appunto in cui gli individui perseguono esclusivamente i propri vantaggi personali. Dalla lettura del complesso delle opere di Smith emerge come egli non pensasse affatto che il comportamento umano potesse essere ridotto al razionalismo egoista. Basti pensare a quanto stretto fosse in Smith il nesso tra etica ed economia e al ruolo che l’“empatia” gioca nella sua Teoria dei sentimenti morali.
Successivamente, l’egoismo razionale si è trasformato da situazione estrema, ipotetica, in pretesa descrizione del comportamento effettivo dei soggetti economici nel mercato. Si è voluto addirittura espungere dalla teoria economica qualsiasi proposizione non fosse derivabile dal comportamento razionale ed egoista dei singoli individui (riduzionismo). Ha scritto Amartya Sen: «È proprio il restringimento di ottica rispetto all’ampia visione smithiana degli esseri umani a poter venir visto come una delle principali carenze della teoria economica contemporanea». La separazione delle ragioni dell’efficienza da quelle dell’etica (e quindi anche dalle questioni distributive) permea ancora oggi gli insegnamenti di economia, con conseguenze nefaste sulla formazione degli studenti.
Dagli anni ’60 del secolo scorso alcuni economisti (come George Stigler, James Buchanan e Gary Becker) hanno cercato di rendere l’egoismo razionale l’alfa e l’omega del comportamento umano in generale, cioè ben oltre il campo economico. La politica, il crimine, la famiglia, tutto doveva rientrare nell’ambito del comportamento “economico”. Il ruolo degli “incentivi” e la possibilità di rendere qualsiasi atto sociale oggetto di scambio erano di conseguenza esaltati. Era iniziato l’imperialismo dell’Economia sulle altre scienze sociali. Il risultato, sotto il profilo etico, è stato deprimente. L’estensione di ciò che è possibile comprare, della visione “mercatistica” dell’esistenza, ha corrotto molte relazioni sociali e trasformato in merce il corpo e la mente di molti uomini e donne (come notato dal filosofo morale di Harvard Michael Sandel), finendo per “giustificare” comportamenti effettivamente anti-sociali in quanto “normali” espressioni dell’interesse individuale in azione.
Col tempo è tornato a emergere che l’egoismo razionale non descrive correttamente né il comportamento politico né quello economico, per non parlare delle scelte familiari o sessuali. Le scoperte delle neuroscienze (si pensi ai neuroni-specchio di Giacomo Rizzolatti) hanno messo in luce l’esistenza di una predisposizione naturale (genetica) degli umani a provare empatia (per riprendere il punto di Adam Smith) e fiducia negli altri, perciò a cooperare, a formare comunità, a condividere e quindi ad elaborare valori comuni. Non possiamo escludere, perciò, che questa naturale propensione empatica sia il vero collante della società umana, più di quanto lo sia l’interazione tra soggetti egoisti nel “mercato” (economico, politico, sessuale, ecc.). Anzi, lo stesso mercato economico-finanziario si presenta come una delle istituzioni complesse che la cooperazione tra gli uomini ha col tempo perfezionato, generando, con le regole per tenere a bada i comportamenti devianti, la fiducia nell’interazione anonima e nelle relazioni intertemporali (debito/credito).
Il premio Nobel per l’economia 2017 a Richard Thaler è una ulteriore sanzione del crescente peso della psicologia nello spiegare i comportamenti umani, anche in campo economico. Ripensare la teoria economica su basi comportamentali più realistiche, abbandonando l’imperialismo economico e accettando che l’uomo è mosso da motivazioni complesse è un compito grande e difficile per gli economisti. Ricongiungere etica ed economia nei curricula universitari è un passo cruciale, credo, di questa ricostruzione. E non basta un corso, magari facoltativo, di Etica dell’economia e della finanza.
Ma è ora che si ripari anche ai guasti politici ed etici prodotti dall’imperialismo degli economisti, col loro egoismo razionale esportato in ogni campo delle scienze sociali. La politica, al contrario di come la dipinge la scuola della public choice, non è solo cinico perseguimento del desiderio di essere rieletti o di meri vantaggi materiali. Gli interessi egoisti esistono e perciò sono necessari l’accountability e i meccanismi di controllo. Ma la politica è mossa anche (forse soprattutto) dal desiderio di lasciare le cose meglio di come sono state trovate, di contribuire al bene umano: «Ci si potrebbe accontentare di coglierlo e preservarlo per il singolo, ma è migliore e più divino farlo per un popolo o per le città», scriveva Aristotele (Etica Nicomachea).
Vent’anni fa Steven Kelman, professore di Public Management alla Kennedy School of Government di Harvard, notava come l’egoismo dei politici predicato dalla public choice ignori «la capacità delle idee di sconfiggere gli interessi e il ruolo che lo spirito pubblico gioca nel motivare il comportamento di chi partecipa al processo politico». Il cinismo della public choice può contribuire a ridurre lo spirito pubblico semplicemente insistendo sul fatto che esso non esiste. Non ne abbiamo davvero bisogno.
L’autore è Ordinario di Economia politica, presso la facoltàdi Scienze bancarie finanziarie e assicurative dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
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