Abituato a veder scorrere immagini e a sentir discorsi che non danno ragione di tutto quello che si muove nel cosiddetto “mondo giovanile”, non m’è parso vero di poter intervenire a un incontro organizzato da Res ethica, l’associazione di giovani studenti della Bocconi impegnata a sviluppare un dibattito in materia di etica applicata, in cerca di soluzioni e princìpi condivisi. È un’esigenza imprescindibile del nostro tempo, quella di dar vita a un’attenta analisi e a un confronto sui temi etici e bioetici, poiché la rapidità dello sviluppo tecnologico muta rapidamente gli stili di vita e modifica anche il modo in cui l’uomo concepisce se stesso e il proprio futuro, il rapporto con gli altri e con l’ambiente. È un modo per misurarsi con alcuni snodi della cultura e della società di oggi, ragionando sui fondamenti dell’etica, sul suo impatto sulla vita dell’uomo e – sembrerebbe una conseguenza scontata, ma spesso non lo è – sulla sua dimensione sociale e non soltanto privata. La domanda – sollecitata anche dai tanti casi che riempiono la cronaca - riguarda il compito dell’etica nella società attuale.
I continui sviluppi della tecnologia, e in particolare i nuovi mezzi di comunicazione, danno vita a un profondo e continuo cambiamento culturale, che esige un adeguamento delle categorie con cui esprimere l’umano, oltre a un ripensamento del modo di riconoscere e di dire ciò che è moralmente buono o cattivo. La via tracciata dalla morale tradizionale – accolta da gran parte della società ma poi gradualmente scartata – per diversi secoli ha definito modelli di comportamento e divieti, delimitando con esattezza l’area del bene morale. Nel tempo, questa via ha finito per essere percepita come “estrinseca”, perché estranea al soggetto e alle sue dinamiche più profonde; “legalistica”, perché troppo improntata sul concetto di legge morale; “minimalista”, perché dal legalismo non può scaturire una tensione al perfezionamento della persona e a quel “di più” che supera il “dovere per il dovere”.
È evidente che compito dell’etica – se intende intercettare le persone e la loro storia, proponendosi come un fattore aggregante e non come un limite – è di rinnovarsi ripensando ai suoi fondamenti, mettendosi in ascolto e a confronto con gli eventi e i diversi punti di vista. L’incontro, la verifica e il confronto non vanno subito e comunque demonizzati, come predicano e praticano i fautori di una “apologia della divisione”. Il confronto rispettoso e fondato è fattore di crescita e di progresso. Per tutti.
Aprendo il suo celebre “Dopo la virtù” (1981), Alasdair MacIntyre descriveva il nostro tempo dal punto di vista etico, immaginando lo scenario apocalittico di una società che resti in possesso dei ritrovati della scienza e della tecnica, ma non possieda più le conoscenze per impiegarli, perché andate perdute. Tale sarebbe oggi, secondo l’autore, la situazione dell’etica, la quale fa uso della terminologia mutuata dai classici, ma in un contesto così differente da non riuscire a comprenderla nel suo vero senso. Come Aristotele, parliamo della felicità quale fine del cammino dell’uomo, ma lo facciamo in un contesto che così spesso assimila la felicità al divertimento, da non vederne più i contorni. Siamo così lontani dalla identificazione aristotelica tra etica e politica, che spesso ricadiamo in qualche forma più o meno celata di individualismo. Abbiamo così radicata l’idea che l’agire corretto sia conformità a una norma, che il ricorso al tema delle virtù, ben più radicate nell’uomo – in quanto suoi abiti interni – di quanto possano esserlo le leggi, rimane parziale e secondario. Abbiamo tanta gente osservante ma infelice, ligia ma non necessariamente virtuosa.
Anche la bioetica risente di queste incertezze e, come l’etica, manca di un terreno comune per un confronto costruttivo, e dei presupposti antropologici necessari a pervenire a qualche conclusione condivisa. È l’antropologia il fattore dirimente, poiché è a partire dalla visione sui costitutivi dell’essere umano che si assume, che la cultura e la società prendono una forma o un’altra.
Un’antropologia che consideri con più serietà l’uomo come “essere –in –relazione” e il “limite” come elemento che struttura l’esistenza stessa dell’essere umano, in ogni suo aspetto, pone le basi per un diverso rapporto tra l’uomo e la tecnologia, l’uomo e la vita, l’uomo e la malattia. È muovendo da questa consapevolezza che Papa Francesco ha definito la Chiesa come «ospedale da campo», impegnata anzitutto a curare le ferite di un’umanità imperfetta, per la quale però il limite può divenire occasione di incontro e di misericordia, e quindi porta per l’umano.
È la strada di cui disponiamo per neutralizzare il messaggio falso e deleterio che prevede vite che, per le loro condizioni contingenti, non sono (o non sono più) degne di essere vissute. Vite delle quali la società preferisce liberarsi, anziché farsene carico. È la strada che contribuisce fatalmente a creare nella comunità umana una “sacca di scarto” virtuale, fatta dall’insieme di coloro la cui vita sarebbe ritenuta “non degna” e, di conseguenza, non meritevole di essere sostenuta dalla comunità.
Nunzio Galantino è segretario generale della Cei e vescovo emerito di Cassano all’Jonio
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