Gentile Galimberti,
scriveva nel 1968 Robert de Montvalon: “I popoli si avvicinano sempre di più e questo ci spaventa. Scopriamo infatti che colui che si avvicina a noi è sempre diverso dall’immagine che ce n’eravamo fatta nei nostri sogni di viaggio. Egli è già troppo vicino per ciò che ha di diverso da noi, è ancora troppo lontano per ciò ha di simile a noi”. Forse è solo troppo povero per accostarsi alla nostra ricchezza e ha troppa speranza per accostarsi alla nostra sfiducia.
Fabrizio Floris
Caro Floris,
quello che lei scrive e che trascrive è verità profonda e attuale. Molto dell’inquietudine e delle ripulse che scuotono il mondo viene da queste trasfusioni umane che stanno cambiando il volto etnico di tanti Paesi. Così come la guerra fa emergere il meglio e il peggio dell’umanità (eroismo e crudeltà, sofferenza e soccorso, massacri e martìri…) anche queste ondate migratorie hanno attizzato il peggio e il meglio: da una parte una xenofobia che nei casi peggiori arriva alla violenza; dall’altra parte tante iniziative di volontariato (ed è il volontariato uno dei pochi gioielli della nostra corona) per l’assistenza agli immigrati.
Ho parlato di inquietudine e di ripulse. Le ripulse appartengono alla patologia dell’anima, l’inquietudine alla fisiologia: il “diverso” è sempre qualcosa che mina le certezze e sconvolge l’abitudine, quella coltre che dà sicurezza al vivere quotidiano. Lo tsunami populistico che sale in America e in Europa ha più di una ragione, ma non ultima è quella “inquietudine”. La gente urta nel “diverso”, vorrebbe forse tornare al passato ma sente più o meno confusamente che non è possibile (un ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha detto che opporsi alla globalizzazione è come opporsi alla legge di gravità) e si rifugia allora nel voto di protesta, anche se i movimenti populistici o anti-sistema sono più bravi nel convogliare le frustrazioni che nel proporre soluzioni.
Basta consolarsi col proverbio siciliano - “Calati juncu chi passa la china” (”Piegati giunco finché non è passata la piena”) - , accettare queste difficoltà in attesa di tempi migliori? No, non è abbastanza. Le ferite al tessuto sociale non si rimarginano facilmente e la pressione migratoria può solo essere contenuta, non invertita. C’è solo da sperare che - e operare affinché - il nostro “peggio” diventi “meno peggio” e il nostro “meglio” diventi “più meglio”.
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