Commenti

Dossier L’economia come “problem-solving”

  • Abbonati
  • Accedi
    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    L’economia come “problem-solving”

    (Afp)
    (Afp)

    La crisi del 2008 ha dimostrato come le ipotesi su cui l'analisi economica corrente si fonda siano inadeguate a spiegare i comportamenti reali nei momenti di crisi: è necessario che l'economia politica allarghi i suoi orizzonti ad altre discipline, come finanza, diritto, psicologia, sociologia, demografia, filosofia politica, medicina. È cruciale che l'analisi economica acquisti sempre più una metodologia “problem solving”, alla Polya, potendosi appoggiare a un patrimonio evoluto di teoria e dati. Stati Uniti ed Europa hanno scelto soluzioni differenti al medesimo problema: i primi sono usciti dalla crisi, i secondi hanno diviso l'Europa. L'economista non può aver competenza in tutte queste aree del sapere: ma può attingerne ai risultati. Consideriamo tre problemi contemporanei in cerca di soluzione: la crisi finanziaria, la crisi demografica europea e la disuguaglianza economica.

    La crisi del 2008 poteva essere evitata? Forse sì, bloccando comportamenti avidi e irresponsabili: nel frattempo sono state introdotte regole, dal gennaio 2018 con la MIFIDII, con l'obiettivo di aumentare informazione e trasparenza di mercato, ridurre il “rischio morale” di nuova crisi e rafforzare la protezione dei risparmiatori. È necessario che gli economisti ne conoscano contenuti, cambiamenti richiesti e conseguenze. È ragionevole pensare che gli economisti avrebbero potuto avere un ruolo nel prevenire la crisi se l'individuazione delle regole più appropriate per i mercati finanziari fosse stata una priorità di ricerca. Un'efficace sistema di regole deve delimitare con chiarezza i limiti del “campo di gioco”, e un arbitro indipendente deve sanzionare le infrazioni. Ma il gioco economico è governato da passioni e interessi, piuttosto che una razionalità logica: nella “gara di bellezza” keynesiana vince chi interpreta meglio l'umore collettivo e ci si deve perciò domandare se, ad esempio, le nuove regole siano a prova della “follia delle folle”.

    Il crollo demografico in Italia, Germania e Giappone poteva essere evitato? Sì: il problema riguarda molti grandi paesi sviluppati e poteva essere risolto con una lungimirante politica a favore di famiglia, figli e lavoro, com'è avvenuto in Svezia nel corso degli anni '90. La struttura demografica dell'Italia e della Germania è la medesima, con una quota crescente sia della popolazione oltre i 65 anni sia della loro domanda di prestazioni sanitarie, e una simultanea riduzione della natalità al di sotto del livello necessario per una popolazione stazionaria. Il problema è il medesimo ma le soluzioni sono opposte. La differenza è che in Italia la produttività ristagna da 20 anni, mentre in Germania è aumentata, grazie a crescita, innovazione e qualità dei prodotti. La natalità in Germania ha ripreso a crescere, con la diminuzione della disoccupazione e l'aumento dei tassi di occupazione. L'impatto delle pensioni sulla finanza pubblica è di conseguenza più rilevante in Italia che in Germania e Svezia. Crollo demografico e immigrazione sono fenomeni legati: in Italia il numero di giovani italiani fra 20 e i 40 anni si è ridotto di 2,5 milioni (2003-2011) mentre il numero immigrati è aumentato di 1,3 milioni, con un saldo netto di -1,2 milioni. L'immigrazione non è una soluzione definitiva né per l'Italia né per la Germania: i giovani italiani sono disoccupati o emigrano, l'immigrazione in Italia è di bassa qualificazione e salario; in Germania è di più elevata qualificazione ma comunque stimata insufficiente. Le famiglie immigrate in Italia, anche se integrate, incontrano rapidamente difficoltà analoghe alle famiglie italiane, se non maggiori. La dimensione della popolazione e la sua struttura per età sono centrali nel processo di crescita, come la Cina dimostra in modo eloquente: la sua sostenibilità è diventata un problema pressante a cui solo la ricerca interdisciplinare, almeno di economisti e demografi, può fornire prospettive di soluzione.

    La disuguaglianza è inevitabile ? Forse no, in tempo di pace. Negli Stati Uniti la quota di reddito prelevata dal top 1% dei più ricchi, ha raggiunto il suo massimo nel 1928, prima della Grande Depressione e nel 2007 prima della Grande Recessione: i due picchi hanno natura diversa, ma ciò che conta è che la quota del top 1% non è sensibilmente diminuita dopo il 2008, come invece è avvenuto dopo il 1930. Ciò è forse da collegare alla politica del QE, che ha salvato la finanza di Wall Street ma senza un'adeguata protezione per la Main Street, cioè il ceto medio o a basso reddito. La progressività del sistema tributario e una reale lotta all'evasione potrebbero migliorare il tenore di vita degli americani.

    Invece, la crisi del 2008, congiunta alla persistenza disuguaglianza, ha prodotto un cambiamento strutturale in cui i “perdenti” sono stati scartati dalla società. In Italia il problema è diverso, perché dal 2008 l'economia ristagna, ma con radici strutturali preesistenti: la questione più urgente è quella dei bassi redditi e della povertà assoluta. La II Guerra Mondiale è stata anche la conseguenza della Grande Depressione, mentre la Grande Recessione ha finora provocato (solo) la Brexit e una crescente divisione all'interno dell'Unione Europea. È necessario un paradigma condiviso su ciò che potremmo chiamare una disuguaglianza “giusta” all'interno di ciascun paese e a livello internazionale: la pressione migratoria sull'Europa dimostra che le persone si muovono più velocemente degli investimenti diretti, spinte da una povertà estrema e una disuguaglianza “ingiusta”. Ma le categorie etiche, oltre che economiche, di cui gli economisti e i policy-maker dispongono sono ancora inadeguate.

    “Economics for a changing world” è l'obiettivo del progetto “CORE” per una economia nuova nei contenuti e nei metodi, liberamente accessibile online: esempio e punto di partenza per la diffusione di nuovi comportamenti rispettosi della persona umana e del bene comune, estirpando la pianta dell'avidità irresponsabile e senza scrupoli.


    * Professore di Politica economica, facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore

    © Riproduzione riservata