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Dossier La rivoluzione parte dalle altre discipline

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    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    La rivoluzione parte dalle altre discipline

    (Reuters)
    (Reuters)

    L’economista «deve essere in un certo modo matematico, storico, statista, filosofo; maneggiare simboli e parlare in vocaboli; toccare astratto e concreto con lo stesso colpo d’ala del pensiero».

    «Nessuna parte della natura e delle istituzioni dell’uomo deve essere fuori dallo sguardo dell’economista. La sua attitudine deve essere determinata e disinteressata al tempo stesso; così distaccato e incorruttibile come un artista, eppure talvolta così concreto come un politico»: così John Maynard Keynes descriveva il proprio mestiere, in un saggio sull’Economic Journal, scritto per commemorare Alfred Marshall, morto nel 1924.

    Facciamo scorrere la macchina del tempo e arriviamo all’anno di grazia 2017. Quanti economisti si potrebbero oggi riconoscere in quella bella descrizione? Molto pochi, temiamo. E il Processo all’economia che da tre mesi scorre sulle pagine del Sole 24 Ore, ne indaga il perché.

    L’economia, che aveva avuto origine dagli scritti di Adam Smith, un professore di filosofia morale del tardo Settecento, aveva via via acquisito formalismi che la facevano quasi ambire al ruolo di “scienza esatta”. Le ambizioni di esattezza dovevano però ogni tanto fare i conti con la realtà. Un primo scontro, la crisi degli anni 30: no, l’economia non si aggiusta da sola, si può ben adagiare in un equilibrio di sotto-occupazione, invece di tornare, come uno yo-yo, agli equilibri ben temperati della piena occupazione. Questa prima “nasata” fra teoria e realtà condusse alla Teoria generale... di Keynes e a prescrivere interventi pubblici di sostegno all’economia. Poi, negli anni 70, le misure keynesiane furono messe in discussione, quando i due flagelli della disoccupazione e dell’inflazione si presentarono appaiati. Ma l’ultimo scontro fra concetti e fatti dell’economia si è dato con la recente Grande recessione prima, e con l’emergere, poi, di un populismo attizzato dalle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza.

    Passiamo brevemente in rassegna i contributi – o le testimonianze, visto che parliamo di un processo – apparsi sul nostro giornale. L’immagine di una scienza economica che ha perso i contatti con la realtà è fedele o è una caricatura senza fondamento?

    Pietro Reichlin non ha dubbi: c’erano già in letteratura le ipotesi – eterogeneità dei soggetti economici, imperfezioni dei mercati – e gli strumenti – modelli agente-principale, modelli con informazione imperfetta e azzardo morale – che potevano spiegare la Grande recessione. E Umberto Cherubini, docente di Finanza matematica, dal suo angolo concorda: «La mia risposta, su cui dichiaro un ovvio conflitto di interessi, è che l’economia non si sia appropriata di tutto il formalismo matematico necessario a rappresentare il comportamento razionale. Ed è un insieme di strumenti complesso che va oltre la teoria della probabilità. Da questo punto di vista la scelta della multidisciplinarietà è una scorciatoia, e può diventare un’autorete».

    Ma allora, come rispondere alla regina? The Queen question, la ”domanda della regina”, sta in un semplice interrogativo che Elisabetta pose nel novembre 2008. Presenziava all’inaugurazione della nuova sede della London School of Economics, e durante un dibattito su quella turbolenza dei mercati che diede la stura alla Grande recessione, Sua Maestà chiese: «Perché nessuno l’aveva vista venire?». La risposta di Rechlin è che gli strumenti per comprendere c’erano, ma ne è stato fatto cattivo uso, a scopo politico-ideologico o per difendere rendite di posizione. E Angelo Baglioni: «La mia impressione è che il problema principale sia stata la scarsa conoscenza dei fenomeni empirici: le pratiche scorrette nell’erogazione di prestiti bancari (subprime), la proliferazione di strumenti finanziari complessi che nessuno capiva. Insomma, «il posto peggiore per capire come va il mondo è stare seduto dietro la propria scrivania». Renato Ruffini osserva, su questo punto, che gli economisti, applicando alle imprese schemi teorici basati solo sulla massimizzazione del profitto, hanno ignorato il fatto che l’impresa «è nella realtà un insieme complesso di relazioni interpersonali ad alta intensità emotiva e di cooperazione fiduciaria».

    Francesco Trebbi preferisce guardare a come il fervore della scienza economica di oggi possa restituire all’economia il titolo di «regina delle scienze sociali in termini empirici e metodologici»: oggi l’economia rivolge lo sguardo anche alle interazioni fra sistemi politici e mercati, le opportunità di arbitraggio intellettuale, dice Trebbi, sono enormi. Anche quei modelli che venivano accusati di schematizzare la realtà fino a renderla irreale stanno cambiando. Osservano Tiziana Assenza e Domenico Delli Gatti che è stato introdotto nei modelli un “acceleratore finanziario” e forme di razionalità limitata derivanti dalla economia comportamentale. Più in generale, ricordano Giovanni Dosi e Mauro Gallegati, «l’interazione di agenti eterogenei genera non-linearità: questo mette fine all’età delle certezze». E oggi entra in scena anche la neuroeconomia che - dice Giorgio Coricelli – studia il cervello: «Attraverso la risonanza magnetica funzionale è stata rilevata nell’uomo una dissociazione temporale tra il calcolo del valore atteso e del rischio... Questo implica che tutte le scelte effettuate troppo in fretta, pensiamo al trading online, rispecchiano una ... limitata considerazione della rischiosità di ciò che stiamo scegliendo». Elena Beccalli riporta i tentativi di spiegare con un modello – e non semplicemente di constatare – alcune trappole cognitive messe in luce dalla finanza comportamentale: l’eccesso di fiducia e la cosidetta biased self attribution, vale a dire l’attribuzione dei buoni risultati alle proprie abilità e dei cattivi risultati a fattori esterni. In quelle trappole, scrive Francesco Billari, cadiamo tutti: «Tutti gli umani sovrastimano la propria ...capacità di prevedere il futuro. Gli esperti (tra cui gli economisti) però, sono i più overconfident, fino ad apparire presuntuosi».

    Al dibattito ha contribuito anche un fisico teorico, Francesco Sylos-Labini. Può sembrare strano che la più grave crisi del dopoguerra, la Grande recessione, abbia avuto origine da un oscuro angoletto della finanza americana (i mutui subprime). Ma le teorie del caos insegnano che il battito delle ali di una farfalla in Amazzonia può provocare un tifone a Tokyo. Come dice Sylos-Labini, i sistemi in genere sono «in posizione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità».

    Il modo con cui gli economisti spiegano la realtà può portare a conseguenze, scrive Vittorio Pelligra, che sono peggio di semplici errori: «Se in fisica usiamo il modello sbagliato per descrivere la realtà, questa continuerà ad esistere, in barba al modello sbagliato. Se in economia usiamo il modello sbagliato, questo avrà ripercussioni sulla stessa realtà che dovrebbe descrivere». Su questi aspetti insiste Nicola Rossi: un intervento di politica economica, scrive con parole terrificanti, «può spesso essere assimilato a un’operazione chirurgica condotta nella penombra, da un chirugo bendato che disponga solo di un coltello da cucina, su un paziente perfettamente sveglio e anzi discretamente reattivo».

    Ma torniamo a Trebbi e all’economia “regina delle scienze sociali”. Ok, l’economia è ridiventata “regina” ma dopo aver preteso, ricorda Andrea Boitani, di essere “imperatrice”: con Gary Becker la «politica, il crimine, la famiglia, tutto doveva rientrare nell’ambito del comportamento “economico”» ... «Era iniziato l’imperialismo dell’Economia sulle altre scienze sociali». Ma oggi l’economia è “regina” perché non è più solo economia. Si è allargata. Le scoperte delle neuroscienze hanno messo in luce una predisposizione genetica all’empatia, alla collaborazione, alla fiducia negli altri, e non «possiamo escludere – scrive Boitani – che questa... sia il vero collante della società umana, più di quanto lo sia l’interazione fra soggetti egoisti nel “mercato”».

    Qui c’è il pieno consenso di Leonardo Becchetti: studi sul campo hanno dimostrato che solo un terzo degli osservati si comporta come l’homo oeconomicus. Già Amartya Sen osservava che l’uomo razionale è uno “sciocco razionale”, perché la razionalità individuale è inferiore alla «razionalità sociale basata su fiducia e cooperazione» (lo “sciocco razionale” si comporta come un “idiota sociale”, dice Laura Pennacchi).

    Barry Eichengreen vede (un punto sottolineato anche da Nicola Gennaioli e Nicola Rossi) grandi opportunità nei Big data, nell’enorme messe di dati che una società sempre più digitalizzata mette a disposizione dei ricercatori. Finora si è data la priorità ai metodi invece che ai problemi – si analizzano i dati invece di sporcarsi le mani con gli stessi. Finora, si è detto. Ma le cose stanno cambiando, ricorda Eichengreen: oggi gli economisti analizzano la spesa per consumi non ipotizzando consumatori razionali ma analizzando i codici a barre dei supermercati – studiano le decisioni di investimento non ipotizzando mercati finanziari efficienti ma andando a vedere i flussi in entrata e in uscita di banche e società di investimento (e anche dei singoli, ricorda Gennaioli). Su questo punto interviene Paolo Savona: l’intelligenza artificiale (AI) può cogliere, nella messe di dati dei mercati finanziari delle correlazioni che l’occhio umano non vede - il fiuto può vederle, ma non con lo stesso discernimento delle tecniche di AI (swarm intelligence, reti neurologiche...).

    In conclusione, emergono tre visioni – o tre “sentenze” - da questo processo. C’è una visione pessimistica, come quella di Emilio Barucci: «Questa forse è la lezione più profonda della crisi: i modelli, e le implicazioni di policy, degli economisti non hanno affatto la valenza normativa/predittiva che hanno quelli che vengono dal mondo della fisica. Questo è il limite principale della teoria economica che ad oggi non è stato ancora riconosciuto. Infatti, gli economisti non desistono e coltivano sempre di più l’ambizione di estendere le loro teorie ai contesti più disparati con risultati di portata davvero limitata. Sembra proprio che gli economisti mal si rassegnino al destino auspicato da Keynes di divenire umili come i dentisti».

    A questa si contrappongono due visioni più ottimistiche: la prima (vedi Reichlin e Cherubini) afferma che la scienza economica, in quanto scienza, non ha molto da rimproverarsi: gli strumenti esistevano già, sono stati solo usati male. E in ogni caso c’è ancora da lavorare per estendere il formalismo matematico volto a spiegare il comportamento razionale. La terza visione, forse maggioritaria, descrive un fervoroso processo di rinnovamento basato sulla multidisciplinarietà: l’economia apre alla psicologia (Andrea Moltrasio ricorda che la Banca centrale olandese fa partecipare psicologhi alle riunioni dei consigli) e alla sociologia, alla storia e all’analisi dei sistemi politici e delle reti neurali... E, sulla contrapposizione fra economia razionale e comportamentale, Paul Krugman dà un colpo al cerchio e uno alla botte: «...la razionalità è una bugia. Ma in alcune aree dell’economia [la finanza] sembra essere una bugia a fin di bene, utile come guida per ragionare se non la si prende troppo sul serio. In altre aree, invece, [la macroeconomia] è soltanto un disastro».

    Allora, come si conclude questo processo? Colpevole o innocente? Come nell’Assassinio sull’Orient Express, si può essere tutti colpevoli e tutti innocenti...

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