Che relazione c’è tra le elezioni italiane del prossimo 4 marzo e l'accordo franco-tedesco che verrà celebrato il prossimo 22 gennaio in occasione del 55esimo anniversario del Trattato dell’Eliseo? Nessuna, secondo l’opinione della maggioranza degli osservatori e dei politici italiani. Tant’è che, con la sola eccezione di questo quotidiano, non è stata riportata neppure la notizia della decisione, dei parlamenti della Francia e della Germania, di votare un documento congiunto in occasione di quella celebrazione. Un documento che impegna i due Paesi ad approfondire l’integrazione reciproca su materie cruciali per il funzionamento del mercato unico e dello stato sociale. Eppure, tra le nostre elezioni e l’accordo franco-tedesco, la relazione c’è ed è strettissima. Una relazione da cui dipende il futuro dell’talia. Mi spiego.
Cominciamo dalle elezioni italiane. È certamente vero che esse costituiscono una pagina bianca che solamente gli elettori e le elettrici potranno riempire. Tuttavia, è anche vero che la penna con cui riempirla può avere caratteristiche diverse. Dato che il prossimo 4 marzo si voterà con un sistema elettorale proporzionale, molti esponenti hanno pensato di poter riportare indietro le lancette dell’orologio politico italiano. È un fiorire di liste, di organizzazioni, di distinzioni. Ma, attenzione, si tratta di un vero e proprio fumo negli occhi. Perché, nonostante la frammentazione superficiale dell’offerta politica, al fondo di quest’ultima c’è una divisione fondamentale, quella tra chi pensa di governare un’Italia indipendente e chi invece un’Italia integrata. Chiamo i primi gli indipendentisti e i secondi gli europeisti. Gli indipendentisti costituiscono la coalizione (informale) dell’introversione italiana, avanzano proposte senza porsi il problema della loro fattibilità. Ragionano come se disponessimo della sovranità monetaria o dell’autonomia di bilancio. Per questa coalizione, l’Europa è uno dei temi della campagna elettorale, un capitolo della politica estera da affidare (semmai) alle cure della diplomazia.
Basti leggere le ripetute dichiarazioni del candidato premier dei Cinque Stelle, secondo cui il governo da lui diretto non rispetterà il vincolo del 3% del deficit né tanto meno quello del debito pubblico, così da poter distribuire il reddito di cittadinanza o da poter abbassare l’età pensionabile. Scelte che l'Europa dovrà semplicemente accettare. Nel caso decidesse di contrastarci, allora l’Italia risponderà organizzando un referendum per uscire dall’Eurozona (naturalmente come “extrema ratio”). Naturalmente, nelle sue considerazioni non entra mai il mercato finanziario e le sue reazioni alle nostre politiche di bilancio. Anche il premier greco Alexis Tsipras promosse un referendum nel suo Paese, nel luglio del 2015, per ‘far capire' agli europei che i greci non erano disposti ad accettare le condizioni imposte per il loro salvataggio. Il risultato fu l’umiliazione della Grecia, che dovette accettare condizioni ancora più dure, dopo quel referendum. Peraltro, ai nostri sovranisti sfugge l’idea che l’uscita dell’Italia dall’Eurozona possa essere vista addirittura con favore dai governi del nord dell’Europa.
Gli europeisti, invece, costituiscono la coalizione che riconosce l’interdipendenza (soprattutto monetaria) dell’Italia. I partiti che si riconoscono nell’Italia europea sono gli eredi dei tre governi di coalizione (Letta, Renzi e Gentiloni) che si sono succeduti in questa legislatura. Governi che hanno avuto delle opposizioni anti-europeiste al loro interno, ma anche dei sostenitori europeisti al loro esterno. Per questi partiti, pur nelle loro differenze, l’Europa costituisce la condizione della nostra politica interna. Essa non è uno dei temi della campagna elettorale, ma il punto di vista con cui affrontare tutti i temi di quest’ultima. Riforme come quella del Jobs Act o del sistema bancario o del sistema costituzionale (per fare degli esempi) non vanno giudicate in sé stesse, ma in relazione alla loro capacità di promuovere gli interessi del nostro Paese nel sistema dell’interdipendenza europea. Anche se non sono mancate stonature o posizioni contradditorie da parte dei leader di questa coalizione, quest’ultima dovrà essere giudicata per come ha governato il Paese in uno dei momenti più difficili della sua storia post-bellica, oltre che per la competenza del personale politico che ha messo in campo. Le prossime elezioni dovranno dunque stabilire quale, tra queste due fondamentali posizioni, potrà guidare l’Italia nel futuro. Ecco perché il 4 marzo non dovremo scegliere tra decine di partiti, bensì tra due grandi opzioni strategiche. Da un lato ci sono i partiti dell’introversione sovranista, dall’altro lato quelli dell’interdipendenza europea.
Vediamo ora la prospettiva europea. Per quanto riguarda quest’ultima, è evidente che la spinta impressa dalla Francia di Emmanuel Macron va nella direzione di un’Europa a due velocità, una spinta che potrebbe concludersi in un vero e proprio sdoppiamento dell’attuale Unione europea (Ue). Lo stallo tedesco, nella formazione del nuovo governo, è l’effetto del protagonismo francese. Al negoziato con Macron, la Germania non può andare con un governo costituito «per mancanza di meglio» (come sarebbe stata la coalizione Giamaica), né può andarci con un partner di coalizione (come i liberal-democratici del Freie Demokratische Partei) decisamente euro-scettico. Macron sta imponendo alla Germania la ridefinizione della sua posizione sull’integrazione europea così come si è venuta definendo dopo l’unificazione del Paese nell’ottobre 1990. La Germania non può non rimanere agganciata alla Francia, sia quando quest’ultima si ferma sia quando riparte. La dichiarazione dei due parlamenti (francese e tedesco), che verrà resa pubblica il 22 gennaio, costituirà il viatico alla cruciale negoziazione che si terrà tra i due Paesi dopo la formazione del governo tedesco, ovvero la riforma dell’Eurozona. Così, mentre i maggiori Paesi dell’Europa dell’est si stanno avvolgendo in una spirale autoritaria, mentre il nazionalismo si sta rilegittimando anche nell’Europa dell’ovest, è evidente che le leadership della Francia e della Germania dovranno risolvere il problema, in quel negoziato, di come liberare l’Ue dalla paralisi decisionale e democratica. Lo faranno da sole oppure vi parteciperà anche la leadership italiana?
Ecco perché l'esito delle elezioni del prossimo 4 marzo avrà conseguenze storiche per l’Europa in cui dovranno vivere gli italiani. Quelle elezioni non decideranno i rapporti di forza tra i vari partiti, individualmente intesi, oppure tra la destra e la sinistra, ideologicamente intese. Piuttosto esse decideranno la collocazione dell’Italia. Se si affermasse la coalizione indipendentista, allora l’esito sarà l’inevitabile auto-esclusione dell’Italia dal progetto di rafforzare e democratizzare l’Eurozona. Anche se non giungerà al punto di spingere il Paese lungo la strada britannica, viste le implicazioni disastrose della Brexit, quella coalizione ci spingerebbe comunque verso la periferia europea. Se invece si affermerà la coalizione dell’interdipendenza europea, allora l’Italia potrà far parte del gruppo centrale di Paesi impegnati a costruire un’unione politica, che garantisca il mercato unico e la democrazia liberale.
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