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Enzo Bianchi: «Coltivo la vita, il silenzio, la speranza»

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A TU PER TU con il teologo

Enzo Bianchi: «Coltivo la vita, il silenzio, la speranza»

Enzo Bianchi e il cane Saba , il trovatello adottato dalla comunità di Bose
Enzo Bianchi e il cane Saba , il trovatello adottato dalla comunità di Bose

Il sole del primo mattino riscalda la terra gelata. Cielo terso. La brina colora di bianco i prati, sulla strada che porta al Monastero di Bose, prime colline del Biellese. Il parcheggio anche nei giorni feriali è pieno di auto dei visitatori che vengono su dalla pianura. Attratti da questo luogo dove il lavoro e il silenzio sono la regola. La diversità un valore. Enzo Bianchi vive qui.

Teologo, scrittore, ascoltato da Papi e ricercato nei caminetti televisivi della domenica sera («più di una volta l’anno non accetto di andare in tv»). Ha fondato questo monastero post conciliare di vita comune tra cattolici, ortodossi e protestanti nel 1965. Non è mai voluto diventare sacerdote. Ma è rimasto laico. Un fratello. Il prossimo 3 marzo, Enzo compirà 75 anni. Già da un anno ha lasciato il priorato ai fratelli più giovani. Quando è qui e non è in giro per il mondo per le sue conferenze, vive tra gli spazi stretti della comunità e la sua cella: una casetta in cima alla collina, ai margini del bosco, che domina la pianura. Continua a scrivere, a studiare. Coltiva il suo orto, contempla la natura. «Camminare è essenziale per me. Quando cammino vivo con più consapevolezza il fatto che la nostra esistenza è un cammino. Andare a piedi ti aiuta a contemplare. Ti aiuta a sviluppare l’attenzione alle cose e agli altri. Lo stupore. La curiosità». Quando si trova in qualche città cerca sempre di passeggiare. Il modo migliore per conoscere un posto. «Mi piace perdermi nelle città che non conosco, osservo la gente, le case. Guardare mentre cammini aiuta a discernere. E porta alla prossimità. Ti avvicina all’altro da te. Persone o cose». Qui a Bose il suo percorso preferito è il sentiero che porta fin su alle serre, accanto ai grandi sassi che contengono la massicciata di terra. «Tante volte mi appoggio a quelle pietre esposte al sole. Mi rimandano il loro calore. In certo senso anche le pietre mi comunicano vita. E io lo sento. Sento il loro calore. Pensare alle cose e alle persone. Avvicinarsi ad esse fino ad avere una forma di contatto mi aiuta a dare un senso alla vita. A sentirmi parte del tutto».

L’inverno è la stagione del pane che lievita al caldo, del focolare, della notte che viene presto, della neve e del freddo. «Ultimamente, con l’avanzare dell’età, come le foglie che si seccano e cadono giù, passo sempre più spesso giornate solitarie. Provo due sentimenti. Il primo è la tristezza di doversene andare: io amo la vita. La vita è buona. Questa prospettiva mi rende triste. Non sono contento di morire e la morte mi fa ancora paura. Il secondo sentimento che provo è quello di vicinanza alle persone, gli animali, le cose...». Mentre lo racconta entra nella stanza Saba, un cagnolino trovatello adottato dalla comunità. Si accuccia accanto a lui. Dopo un po’ sale su una sedia vuota. Regale prende il suo posto come la regina biblica da cui prende il nome. «Mi segue ovunque e mi fa un’enorme compagnia. Sapere che non sono solo mi sprigiona dentro una gioia senza fine».

Quando si diventa anziani diventa importante il contatto. Il corpo va riconosciuto. «Il vero incontro con un malato terminale non è quando gli parli ma quando gli fai una carezza. L’amore fraterno, umano, deve essere vissuto nella carne, nel corpo. Non può essere un sentimento astratto». Detto da un monaco suona un po’ rivoluzionario, dopo secoli di repressione della corporeità di certo cristianesimo, non vissuto nelle sue implicazioni umane e sociali.

Enzo Bianchi gira l’Italia e spesso è all’estero per presentare i suoi libri e portare le sue parole di saggezza. Ma nei tre mesi invernali, da vent’anni ormai, rifiuta tutti gli inviti pubblici. «Non faccio conferenze». Resta a Bose. «Sono tre mesi di silenzio. Seguo le stagioni. Scrivo. Penso e mi serbo del tempo per me».

Il nostro incontro di oggi è un’eccezione. Lui predilige i rapporti umani, l’incontro con le persone. La cosa stupefacente per un uomo della sua età è che non disdegna i rapporti virtuali attraverso i social network: ha un profilo molto seguito su Twitter dove ogni giorno lui stesso posta un “cinguettio”: «Tra le 20 e le 24 scrivo un pensiero sulla giornata che si è appena conclusa». Ha 24mila follower e ogni tweet raggiunge 40- 50mila visualizzazioni. Nutrire il cuore delle persone con il digitale. «Non faccio niente di speciale. Scrivo un pensiero di sapienza umana. E ricevo ogni giorno dalle 180 alle 200 risposte: “Avevo bisogno di questo”. “Mi dai fiducia”. “Mi dai speranza”. “Mi ricordi le cose essenziali”. Quando scrivo un pensiero religioso i commenti arrivano a 500. A volte arrivano anche insulti, come quando parlo dei migranti. Mi danno del musulmano. Qui a Bose ne ospitiamo sei di migranti. Senza pigliare un soldo dallo Stato». Musulmani in un monastero cristiano. Semi di convivenza pacifica e di dialogo.

L’unica regola che vige a Bose è il silenzio. Ci sono momenti in cui si lavora o si pranza accanto a monaci e monache, ma restando in silenzio. A terra ci sono cartelli che vietano di infrangere il silenzio e di accedere in certe aree della comunità, come i divieti che impediscono alle auto di entrare nei centri storici delle città. «Il silenzio è il mezzo per entrare dentro sé». La campana suona alle 8 di sera. Tutti i monaci entrano nelle celle e «facciamo silenzio fino all’alba. Noi abbiamo 12 ore al giorno di solitudine». Nelle celle non ci sono né tv né computer. «C’è la solitudine che serve per la vita interiore. Per andare in profondità. Altrimenti il celibato diventa una castrazione. La solitudine ti fa conoscere i nostri abissi. Il monachesimo ti fa conoscere l’ateismo. Il nulla che a volte ci abita. Esperire a questi momenti e poi risalire è una grande esperienza».

In tanti salgono fino a Bose durante l’anno, più che per ascoltare per essere ascoltati. Persone che cercano di entrare in contatto con se stessi. «A volte arriva qualcuno per confessare dei peccati terribili. Abissi innominabili tanto che si vergognano di confessarsi nelle chiese. Alla sera quando mi capita di incontrare qualcuno così mi sento esausto». La società sempre connessa ha bisogno di questo, forse. Di un contatto, di parlare, di un incontro, di riconciliarsi. Dei tanti che vengono qui ogni anno il 60% sono cristiani, il 40% non credono. Tutti chiedono di essere ascoltati.

Barba bianca lunga, ben curata. Gli occhi fondi e blu. Le mani grandi che parlano dell’amore per la terra. La cella ai margini del bosco, il suo regno. Nella piccola casetta c’è un tavolo davanti a una grande finestra che si apre sulla pianura. «Nella notte son lì da solo davanti alla vetrata. Vedo le luci di Vercelli, vedo Novara fino al chiarore di Milano. E immagino tutta la gente che va a dormire, le pene che portano, le fatiche del giorno appena passato, i malati. Quella visione mi suscita una preghiera spontanea. La preghiera diventa facile, sorge da dentro».

Davanti alla cella ci sono tanti alberi. Un ulivo che ha piantato lui stesso anni fa e che ogni inverno lo fa palpitare «perché temo non sopravviva al gelo». E poi dei roveri. Grandi querce. «Ce n’è una che ha almeno 500 anni». Mentre ne parla si illumina come per un figlio, mi mostra sul telefonino una foto con lui che abbraccia la vecchia quercia: prova a cingerla con le braccia ma non vi riesce, arriva solo a metà della circonferenza di questo albero maestoso. «Quando vado da lei l’abbraccio. È una fonte di comunione per me. Io adesso ci sono. Quando me ne andrò lei, la grande quercia, resterà ancora qui. Ed era qui prima che arrivassi. Mi dà senso alla vita». Ha un piccolo orto che cura personalmente. «Coltivare per me è molto importante. Mi dice che la vita trionfa, così come l’amore vince sulla morte». Ora sta scrivendo un libro sulla vecchiaia. «Ci lavoro da un anno ormai, uscirà in primavera». Parla di come si può viver bene anche da vecchi: «È un libro esistenziale, non un saggio, a partire dalla mia esperienza. È tutto parte dello stesso gioco: accettare il tempo che passa».

Sul momento difficile che sta vivendo il mondo con i conflitti, le guerre religiose, gli attentati terroristici, confida di avere molta paura. «Da 20 anni avanziamo a piccoli passi verso la barbarie. Il disprezzo per gli avversari, gli uni contro gli altri, ti dice della corruzione di un clima. Quando c’erano le ideologie il mondo era diviso in due ma il rispetto per l’avversario c’era sempre. Ora è tutto frammentato da tensioni xenofobe e localistiche che sono delle vergogne, da indifferenza più assoluta. Temo il rancore degli scarti della società contro di noi». Quello che è avvenuto in Francia con le banlieue e con gli attentati dei giovani immigrati di seconda generazione che diventano terroristi. «Ma abbiamo anche noi una responsabilità: dove piglia le armi l’Isis? Gliele diamo noi. Questa è la follia umana. Dopo i disastri delle due guerre mondiali nel Novecento siamo tornati al punto di partenza. Non accendo più la tv perché persino nei talk show per le casalinghe è solo violenza verbale».

Una speranza? «L’umanità ha la forza per risollevarsi. Il progresso non è accrescimento sempre. La storia ce lo insegna. Noi proveniamo dagli animali. L’uomo è cresciuto grazie al suo spirito e alla sua mente. Ci vuole una insurrezione delle coscienze e degli animi per dire basta a questa barbarie. Intanto cominciamo a mangiare insieme e a dividere la tavola. Fare famiglia. Vuol dire contribuire, nel nostro piccolo, a far avanzare l’umanità».

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