Il fisco in versione 2018 riparte esattamente da dove ci aveva lasciati nel 2017: dallo spesometro, ovvero la trasmissione telematica all'agenzia delle Entrate dei dati delle fatture emesse e ricevute. Ma non più lo spesometro che nell'autunno scorso ha letteralmente fatto impazzire decine e decine di migliaia di professionisti e imprese, e mandato in crisi Entrate e Sogei, quanto il suo fratello gemello. O meglio, il gemello in versione “semplificata”, dopo le modifiche volute dal ministero dell'Economia e dal governo per superare l'impasse in cui si era incappati in occasione del debutto di questo adempimento.
In quella fase, la “comunicazione dei dati delle fatture” è diventata la metafora di un sistema fiscale sotto pressione, tra incertezze applicative, falle sul versante della privacy e rinvii a catena. Così, ora, mentre impazzano le suggestioni della campagna elettorale – tra cui insieme a flat tax e tasse da sopprimere non può essere taciuta la proposta di abolire proprio lo spesometro – è esattamente questo strumento, per quanto semplificato, a richiamare tutti alla dura dimensione del fisco reale.
Ci sono due modi per valutare la notizia di ieri: uno positivo, l’altro negativo, almeno apparentemente. Quello negativo dice che lo spesometro “leggero” non parte benissimo, visto che già si annuncia una proroga. Anzi, tutto sommato ci si può spingere a dire che è l’anno fiscale 2018 a cominciare piuttosto male, poiché la scadenza del 28 febbraio per l’invio dei dati delle fatture del secondo semestre 2017 e delle correzioni/integrazioni per gli invii relativi al primo semestre sempre dello scorso anno – uno degli appuntamenti più attesi, a causa dei problemi dell’ottobre scorso – non dovrà essere rispettata, creando subito incertezza tra i contribuenti.
La verità è che tutti speravano che la stagione delle proroghe si fosse chiusa dopo i molteplici rinvii che hanno caratterizzato il 2017 a ogni livello, dallo spesometro a praticamente tutte le dichiarazioni fiscali. Peraltro, va aggiunto che proprio la legge di Bilancio 2018 ha portato in dote un nuovo calendario degli adempimenti che tutti immaginavano a “prova di proroga”. Sapere oggi che il primo appuntamento sullo spesometro è destinato a slittare rischia di trasmettere subito l’idea che si stia andando verso un nuovo anno ancora “ballerino” sulle scadenze fiscali.
Però, c’è anche una lettura in positivo. A ben guardare, lo slittamento (annunciato) del termine del 28 febbraio non può essere considerato una “vera” proroga, o quanto meno un differimento vecchio stile annunciato spesso con un “comunicati stampa-legge”, in alcuni casi persino postumi. In primo luogo perché le proroghe più fastidiose sono quelle che arrivano a ridosso della scadenza, o anche a termine scaduto, e qui invece mancano ancora 40 giorni al 28 febbraio (è anche positivo che ci sia tempo per condividere con gli operatori la bozza del provvedimento e raccogliere le loro osservazioni). Ma, soprattutto, non è corretto parlare di proroga perché, una volta tanto, lo slittamento rappresenta il riconoscimento di un principio sacrosanto che è sancito all’articolo 3 dello Statuto dei diritti dei contribuenti (sempre disatteso): «(...) le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti».
In questo senso, la scelta del rinvio non solo va accolta con favore ma deve diventare anche un punto di riferimento per situazioni analoghe in futuro. È giusto che l’amministrazione faccia la sua parte. Ora aspettiamo un segno anche dal nuovo Parlamento e dal nuovo governo, in passato troppo distratti e poco propensi al rispetto dello Statuto.
Sarebbe un passo decisivo verso un sistema più equo e più in sintonia con le esigenze dei cittadini-contribuenti. Una di quelle promesse elettorali da poter rispettare a “costo zero”.
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