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L'anno della resa dei conti per le banche centrali

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Scenari globali

L'anno della resa dei conti per le banche centrali

CHICAGO – Dal 2008 le banche centrali dei paesi industriali si sono discostate dalla politica monetaria classica in vari modi. Hanno cercato di persuadere il pubblico attraverso lo strumento della “forward guidance”, la comunicazione di previsioni e intenzioni future, che i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi per lunghi periodi di tempo. Inoltre, hanno implementato una serie di programmi, come le operazioni di rifinanziamento a lungo termine (LTRO), il programma per il mercato dei titoli finanziari (SMP), e il cosiddetto allentamento quantitativo (QE) con l'intento di perseguire vari obiettivi.

Più recentemente, le banche centrali hanno anche introdotto tassi di interesse negativi e – dalla Banca del Giappone (BOJ), che è sempre stata in prima linea sul fronte dell'innovazione – il controllo della curva dei rendimenti. Alcune banche centrali, poi, sono ricorse a politiche non convenzionali ma ben note, come il controllo diretto del tasso di cambio.

Adesso, però, poiché l'impressione è che la maggior parte delle principali banche centrali stia cercando di normalizzare la politica monetaria, dovremmo chiederci perché queste misure straordinarie siano state utilizzate e se abbiano funzionato. Guardando al futuro, dovremmo domandarci quale effetto avrà la loro graduale eliminazione e se il loro impiego possa destare preoccupazioni nel lungo periodo. Rispondendo a queste domande, i banchieri centrali saranno meglio preparati ad affrontare eventuali crisi future.

Era necessario?
Vale la pena ricordare che i mercati erano usciti chiaramente a pezzi dalla crisi finanziaria del 2007-2008. Dato il congelamento dei flussi di credito, era comprensibile che le banche centrali fossero disposte a tutto pur di restituire stabilità ai mercati finanziari, sia che si trattasse dei titoli statunitensi garantiti da crediti ipotecari o del mercato dei titoli di Stato europei.

Ma una seconda ragione per cui le banche centrali dovevano intervenire era quella di influenzare rendimenti o prezzi. In questo caso si trattava di un obiettivo più avventuroso, dato che le banche centrali gestiscono i prezzi solo indirettamente, alzando o abbassando il tasso di interesse ufficiale, e non mediante un'azione diretta. Ma una volta che il tasso ufficiale ha raggiunto il limite inferiore pari a zero, i banchieri centrali hanno ritenuto necessario ritoccare i prezzi su una varietà di titoli a lungo termine, talvolta concentrandosi su una particolare classe di obbligazioni nella speranza che l'effetto si propagasse poi alle altre.

Una terza ragione dell'intervento delle banche centrali era quella di segnalare un impegno verso la politica monetaria preferita. Ad esempio, se una banca centrale annunciava un programma di acquisto di titoli di Stato, era sottinteso che non avrebbe praticato una politica monetaria più restrittiva mentre il programma era in vigore. Indipendentemente dall'intento dichiarato del programma, l'effetto risultante era segnalare tassi di interesse “bassi a lungo”.

Le banche centrali hanno addotto tutte queste giustificazioni per attuare politiche monetarie occasionalmente aggressive o innovative. Personalmente, in qualità di ex banchiere centrale, aggiungerei un'altra ragione, che raramente viene menzionata dalle autorità monetarie, e cioè il fatto di essere prigioniere del loro mandato di raggiungere il target di inflazione.

Quando, negli anni ottanta e novanta, cominciarono a fissare una fascia di fluttuazione per l'inflazione, le banche centrali erano perlopiù concentrate sul limite superiore. Pochi banchieri centrali si aspettavano che il problema sarebbe stato il limite inferiore, e che si sarebbero dovuti dare da fare per spingere l'inflazione verso l'alto anziché il contrario. Ora si ritrovano incastrati da un mandato che non necessariamente sanno come assolvere.

La BOJ ha tentato di far salire l'inflazione per circa un decennio e mezzo. Durante questo periodo, i banchieri centrali di molti paesi si sono sentiti autorizzati a dire ai funzionari della BOJ: “È semplicissimo, si fa così”. Ma quando questi stessi banchieri centrali si sono trovati ad affrontare un'inflazione bassa, si sono resi conto che le cose non erano poi così lineari.

Una delle ragioni è che nessuno sa davvero come scardinare l'aspettativa del pubblico di un'inflazione bassa, che sembra contribuire a mantenerla tale. Persino l'opzione drastica di spargere “denaro dall'elicottero” sull'economia è destinata a fallire se la gente a cui arriva pensa che la banca centrale che aziona il meccanismo sia folle. Temendo il giorno della resa dei conti, le persone potrebbero nascondere i soldi sotto il materasso oppure depositarli sul proprio conto di risparmio, invece di spenderli.

In un contesto simile, i banchieri centrali devono seriamente temere che, ammettendo di non avere “altri strumenti politici a disposizione”, le aspettative di inflazione del pubblico potrebbero crollare. Di conseguenza, dichiareranno sempre di avere un'arma segreta per aumentare l'inflazione, che però sperano di non dover mai tirare fuori e, tantomeno, utilizzare.

Pur non essendosi verificata una spirale disinflazionistica negativa, che è ciò che i banchieri centrali temono di più, l'inflazione è rimasta ostinatamente bassa. I banchieri centrali, pertanto, hanno costantemente alzato la posta sull'innovazione monetaria – vale a dire, sui nuovi strumenti che potrebbero teoricamente incrementare l'inflazione – anche se l'inefficacia dei loro espedienti è diventata sempre più evidente.

Secondo questa logica, una volta che il QE ha fatto il suo corso, le banche centrali devono passare ai tassi di interesse negativi. E quando questi ultimi si rivelano insufficienti, devono ricorrere al controllo della curva dei rendimenti. In ogni fase, quando uno strumento politico si dimostra sempre più inefficace, esse devono introdurre qualcosa di nuovo per evitare di dare l'impressione di cedere all'autocompiacimento. Non fornire un'alternativa potrebbe suggerire che hanno abbandonato la speranza, e che anche tutti gli altri dovrebbero farlo, e questo implicherebbe la certezza di aver fallito il proprio mandato.

Ha funzionato?
Questo ci conduce alla seconda domanda: qualcuno di questi strumenti innovativi ha funzionato davvero? In termini di stabilizzazione dei mercati è vero che alcune politiche sembrano aver avuto una certa efficacia, magari perché un danaroso operatore del mercato si è presentato per acquistare titoli, o perché le banche centrali hanno fatto il possibile per sostenere i mercati riaffermando il loro ruolo di garanti del loro funzionamento. Gli spread dei crediti sovrani dei paesi periferici in Europa si stavano allargando rapidamente finché un giorno, nel luglio del 2012, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi non ha annunciato che la Bce avrebbe fatto “tutto il possibile” per salvaguardare l'euro. Quell'affermazione, da sola, ha avuto un effetto magico sui mercati.

Nella misura in cui questi interventi dovevano servire anche ad assolvere il mandato di controllo dell'inflazione, allora non si può dire che abbiano funzionato, almeno non ancora. Il Regno Unito ha subito un deprezzamento della valuta indotto dalla Brexit, con conseguente inflazione, che non può essere realmente attribuito agli interventi della Banca d'Inghilterra. La Fed è quella probabilmente più vicina al suo obiettivo d'inflazione PCE (basato sulla spesa al consumo personale) di circa il 2%, ma sta avendo difficoltà a raggiungerlo, nonostante un mercato del lavoro rigidamente regolato. Altre banche centrali, invece, restano ancora lontane dall'obiettivo.

Ovviamente, i banchieri centrali direbbero che raggiungere i loro target è solo una questione di tempo, e che i loro interventi hanno evitato un crollo delle aspettative di inflazione. Forse è così. È possibile che tali aspettative non siano precipitate in Giappone e in altri paesi perché le banche centrali hanno riaffermato più volte l'impegno ad assolvere il proprio mandato e che non intendevano arrendersi. Ma è anche possibile che l'inflazione si sia stabilizzata su un livello basso per altri motivi.

Resta anche da chiarire se le politiche non convenzionali abbiano avuto un effetto diretto sui tassi di interesse a lungo termine (oltre che per effetto della segnalazione). Le prove di cui dispongono sono miste. Alcuni effetti possono essere visti entro un lasso di tempo ristretto e su una ridotta classe di strumenti; ma non appena l'orizzonte si allarga, l'influenza delle politiche non convenzionali diventa molto più difficile da distinguere. Oppure, per fare un esempio, quando la Fed acquista titoli del Tesoro americano, ciò ha un effetto sui Treasuries, i bond statunitensi. Ma affermare che ha anche un effetto sull'intera gamma dei titoli è molto più difficile. A complicare ulteriormente le cose, è ancora più arduo stabilire un nesso tra politiche non convenzionali e investimenti o consumi nell'economia reale.

In sintesi, le politiche straordinarie delle banche centrali hanno probabilmente avuto un effetto positivo in termini di risanamento dei mercati e di segnalazione dell'orientamento di politiche monetarie accomodanti nel lungo periodo. Ma il loro effetto sull'attività reale resta incerto.

Mollare la presa è sicuro?
Cosa succede quando le politiche subiscono un'inversione? Il lato positivo delle aspettative è che si concentrano nel periodo iniziale. Abbiamo già visto quello che accade quando una banca centrale cambia segnali: durante il periodo del cosiddetto “taper tantrum” nel 2013, la sensazione generale che la Fed potesse porre fine all'allentamento monetario e iniziasse a innalzare i tassi di interesse scatenò forti turbolenze sui mercati e fece rapidamente risalire i tassi di interesse.

Da allora i mercati si sono stabilizzati, ma resta da vedere se gli effetti delle politiche non convenzionali sui prezzi delle attività finanziarie subiranno un'inversione di tendenza al tempo stesso delle politiche. Nel momento in cui le banche centrali inizieranno a ridimensionare il proprio bilancio nel 2018, le obbligazioni a più lungo termine saranno reimmesse sul mercato e le riserve in eccesso verranno estinte. Gli emittenti di obbligazioni dovranno trovare più acquirenti privati, ma gli acquirenti privati avranno fondi per acquistare più titoli. Mentre avviene questo swap di attività, c'è la possibilità che i tassi di interesse a lungo termine aumentino leggermente. E se i mercati si preoccupassero per l'eventuale stock che dovrebbero assorbire, l'aumento dei tassi di interesse potrebbe essere piuttosto brusco.

Finora, la Fed ha annunciato una riduzione graduale del bilancio, e il mercato sembra aver preso la notizia abbastanza bene. Essendoci ormai lasciati alle spalle buona parte dell'effetto di segnalazione, ci si augura che i titoli che resteranno fuori dal bilancio della Fed verranno assorbiti senza modificare pesantemente i prezzi dei bond, e con aumenti solo modesti dei tassi di interesse a lungo termine nel corso del tempo.

Una domanda più fondamentale è se le banche centrali debbano o meno scaricare il proprio bilancio. Jeremy C. Stein, Robin Greenwood e Samuel G. Hanson, docenti dell'Università di Harvard, sostengono che le banche centrali dovrebbero mantenere il proprio bilancio relativamente ampio, perché ciò contribuisce a creare strumenti sicuri a breve termine di cui il mondo finanziario non dispone. Nel tentativo di soddisfare la domanda di passività a breve termine, affermano, il settore privato tende ad assumersi troppi rischi, che poi infestano l'intero sistema.

Ma ci sono almeno due ragioni per cui le banche centrali non dovrebbero rendere permanenti i bilanci di grandi dimensioni. Innanzitutto, farlo significherebbe assumersi la gestione della liquidità come un servizio pubblico. L'inadeguatezza del settore privato nello svolgere questo ruolo durante la crisi finanziaria non è un motivo sufficiente perché le banche centrali debbano farsene carico in eterno. È risaputo che i servizi di tipo assicurativo forniti pubblicamente tendono a generare un'eccessiva dipendenza da parte del settore privato e una sottovalutazione da parte del settore pubblico. Inoltre, come ho dimostrato insieme al mio collega Douglas Diamond dell'Università di Chicago, i servizi di liquidità forniti privatamente possono avere molti vantaggi aggiuntivi che non vengono sempre riconosciuti nel dibattito pubblico.

Fra l'altro, i grandi bilanci delle banche centrali comportano dei rischi politici. Come spiega Charles Plosser, un ex presidente della Federal Reserve Bank of Philadelphia, quando una banca centrale espande il proprio bilancio e lo utilizza in modi che non sono del tutto allineati alla politica monetaria, si espone a pressioni politiche.

Ad esempio, avendo bisogno di 500 miliardi di dollari per le infrastrutture, il governo troverà poche ragioni per non costringere la Fed a convertire alcune delle sue partecipazioni in asset infrastrutturali dello stesso valore. Alcuni banchieri centrali dei mercati emergenti sono abituati a tali richieste e, mentre di solito rifiutano educatamente, capiscono anche che è più difficile dire di no quando si gestisce un bilancio di grandi dimensioni già scollegato dalla politica monetaria convenzionale.

Rischi a lungo termine?
Infine, vi è la questione degli effetti involontari, sul lungo termine, delle politiche monetarie non convenzionali riguardo all'assunzione dei rischi nelle economie avanzate, ai flussi di capitale da e verso i mercati emergenti e, in generale, all'indipendenza delle banche centrali.

Promuovendo la ricerca di un rendimento, condizioni monetarie facili hanno ridotto i premi di rischio per tutti i tipi di attività. Ma, come avvertono Claudio Borio e William White della Banca dei regolamenti internazionali, ciò accelera il ciclo finanziario. Inoltre, la promessa di un'abbondante liquidità ha aumentato la leva finanziaria, sia esplicita che implicita, perché i debitori, scommettendo sul continuo accesso ai finanziamenti, considerano l'assunzione di ulteriori debiti come un'impresa a basso costo. Ciò suggerisce che il sistema finanziario sta diventando più fragile, e aiuta a spiegare perché alcune banche centrali stiano valutando l'ipotesi di inasprire la politica monetaria pur restando lontane dai loro obiettivi di inflazione.

Un esempio importante di come delle politiche monetarie accomodanti contribuiscano alla fragilità finanziaria è il loro effetto sui mercati emergenti, dove si riversano i capitali alla ricerca di rendimenti quando le principali banche centrali tagliano i tassi ufficiali, per poi abbandonarli di nuovo quando le politiche monetarie diventano più restrittive. Il “taper tantrum” del 2013 è stato disastroso per alcuni mercati emergenti perché non sono riusciti a far fronte alle ingenti e improvvise fughe di capitali che aveva alimentato.

Un'analogia comunemente utilizzata per il capitale straniero è un ospite che i mercati emergenti dovrebbero accogliere e che, per la maggior parte, accolgono. Ma il capitale straniero spesso arriva in massa e sempre in massa se ne va, senza molto preavviso. Come ogni padrone di casa, i mercati emergenti vorrebbero sapere in anticipo se arriverà una folla di ospiti e quando deciderà di andarsene, in modo da potersi organizzare di conseguenza. Basando la propria decisione di arrivare o andarsene su ciò che accade lontano, il capitale si comporta come un ospite scorretto.

I flussi bancari transfrontalieri sono particolarmente problematici. Secondo un recente studio di Falk Bräuning della Federal Reserve Bank di Boston, e di Victoria Ivashina della Harvard Business School, quando la politica monetaria si irrigidisce, i flussi bancari transfrontalieri si ritirano velocemente dai mercati emergenti, a causa della breve scadenza dei prestiti bancari. A differenza delle obbligazioni vendute da operatori stranieri, che possono essere acquisite da investitori nazionali, una riduzione dei prestiti da parte delle banche estere non può essere controbilanciata. In assenza di ulteriori prestiti da parte delle banche locali, le imprese dei mercati emergenti spesso subiscono una stretta creditizia.

Finora, i mercati emergenti hanno imparato a barcamenarsi quando si verifica una sostanziale inversione del flusso di capitali, pagando un certo prezzo. Tuttavia, bisogna urgentemente discutere della responsabilità che le principali banche centrali del mondo hanno quando si verificano questi spillover.

Cosa ci riserva il futuro?
Un'ultima domanda riguarda la funzione dei mandati nazionali delle banche centrali nell'incoraggiare le politiche straordinarie che abbiamo visto negli ultimi anni. In passato, le banche centrali sostanzialmente dicevano: “Dateci un mandato e non imponeteci dei vincoli su come assolverlo”. Ma se può aver funzionato quando il problema principale era un'inflazione elevata – e quando lo strumento primario delle banche centrali era il tasso ufficiale (oltre ad alcuni ritocchi marginali alla liquidità) – questa formula non funziona più quando il problema è un'inflazione bassa.

Un'ampia libertà operativa senza una comprensione scientifica e pratica di come assolvere il mandato è una combinazione pericolosa per le banche centrali, le quali sono state sottoposte a una forte pressione verso l'innovazione; al tempo stesso, poi, sono pochi gli asset che non possono acquistare e ancora meno i mutuatari che non possono finanziare.

Quando le politiche monetarie includono sempre più una componente fiscale, le banche centrali possono cadere nel gioco di consacrare i vincitori e punire i perdenti. A quel punto è solo una questione di tempo prima che i politici inizino a chiedersi perché le banche centrali abbiano così tanta libertà. Pur facendo tutto il necessario per assolvere il loro mandato, le banche centrali potrebbero aver involontariamente esposto se stesse a un più attento vaglio della politica e a un maggiore rischio di compromettere la loro indipendenza e potere.

Con tutto quello che hanno fatto per compensare l'inerzia politica all'inizio della crisi finanziaria del 2008, i banchieri centrali si sono messi sotto i riflettori della politica. Sono degli eroi, certamente, per essere intervenuti a mitigare la crisi. Ma ai politici gli eroi non eletti, e per giunta potenti, non piacciono. Con i loro titoli universitari, gergo esclusivo e riunioni segrete in luoghi remoti come Basilea e Jackson Hole, i banchieri centrali sono la quintessenza dell'élite globale senza radici che i nazionalisti populisti amano odiare. E questo valeva anche prima che le banche centrali iniziassero a inasprire la politica monetaria.

Ovviamente, i banchieri centrali preferirebbero evitare qualunque discussione sulla loro funzione e sul loro mandato. Ma, anziché aspettare e sperare che i riflettori pubblici si rivolgano altrove, farebbero meglio a riesaminare con lucidità le loro politiche degli ultimi anni. Spetta alle autorità monetarie concepire un mandato ragionevole e realizzabile, nonché definire una serie di interventi leciti per assolverlo. Per il resto, il 2018 sarà solo l'inizio, anziché la fine, di una nuova e coraggiosa era per la politica monetaria.

(Traduzione di Federica Frasca)

Raghuram G. Rajan, governatore della Reserve Bank of India dal 2013 al 2016, è professore di finanza presso la Booth School of Business dell'Università di Chicago.

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