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Dossier Cosa significano realmente i tagli fiscali di Trump per l’economia Usa

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Dossier | N. 57 articoli Mappamondo

Cosa significano realmente i tagli fiscali di Trump per l’economia Usa

L’obiettivo della politica economica dichiarato dall’amministrazione Trump è di incrementare la crescita negli Stati Uniti passando dal tasso post-crisi finanziaria del 2% al 3%, almeno. In termini storici, non è in dubbio che la crescita raggiunga questo livello. La crescita reale del Pil (depurato dell’inflazione) ha superato il 3% nel 2005-2006 e il 4% nel periodo dal 1997 al 2000; e in ciascuno dei due passati trimestri, l’economia è cresciuta a un tasso annualizzato superiore al 3%. Il punto è se sia possibile mantenere questo passo.

 Malgrado la bassa disoccupazione tendenziale – al 4,1% a dicembre – l’economia Usa non è né in piena occupazione né frenata dall’offerta di manodopera, come hanno sostenuto alcuni. Il rapporto occupazione/popolazione è cresciuto dal minimo dopo-crisi pari all’incirca al 58% a poco più del 60%, ma è tuttora tre punti percentuali al di sotto del livello del 2007 e cinque punti al di sotto del picco nel 2000. Se da un lato molti lavoratori sono andati in pensione dopo la recessione post-crisi, dall’altro alcuni potrebbero voler rientrare al lavoro per ricevere nuovamente una paga. E se finora l’immigrazione netta è rallentata, in futuro potrebbe subire un rialzo, se vi fosse la necessità di un maggior numero di lavoratori.

 Poiché gli investimenti nelle infrastrutture e un serio protezionismo commerciale sono stati (apparentemente) rimossi dal programma, la strategia di crescita auspicata da Trump e dai repubblicani al Congresso ora porta alla riforma fiscale che hanno attuato in fretta e furia a dicembre. Presentando un netto taglio dell’aliquota dell’imposta sulle società e ammortamenti accelerati per gli investimenti di capitale, la legge potrebbe sortire due effetti distinti: un effetto di politica fiscale sulla domanda aggregata e un effetto dal “lato dell’offerta” sulla capacità produttiva dell’economia.

 Nei primi quattro anni, quando i tagli fiscali netti della riforma saranno pari all’incirca allo 0,9% del Pil l’anno, l’effetto dello stimolo dipenderà da quanto reddito privato aggiuntivo verrà speso in un dato anno, e dal moltiplicatore fiscale applicato a quella spesa. Ipotizzando un generoso 60% del reddito privato aggiuntivo speso ogni anno, e che il moltiplicatore fiscale sia 1,5, lo sgravio fiscale aggiungerebbe inizialmente quasi un punto percentuale al tasso di crescita del Pil. Ma questo avrebbe un effetto temporaneo. Il Pil annuo registrerebbe un nuovo rialzo, ma il tasso di crescita a lungo termine resterebbe invariato.

 Inoltre, se i mancati introiti sono controbilanciati dai tagli automatici a programmi come Medicare o Social Security, o dalle riduzioni nella spesa da parte dei governi statali o locali, il pacchetto fiscale sarà inferiore all’effetto fiscale, perché spingerà al ribasso gli acquisti pubblici e privati di beni e servizi. E ancora, ipotizzando sempre con generosità (e non senza problemi) che la Federal Reserve Usa non risponda a questa mossa, gli sgravi fiscali potrebbero portare il tasso di crescita reale al di sopra del 3% per tutto il 2018, e forse anche nel 2019.

 Questione di crescita
Per determinare se la normativa fiscale avrà un qualche effetto cumulativo sul tasso di crescita a lungo, dovremmo considerare un dibattito, pubblicato da Project Syndicate a dicembre, tra Robert J. Barro e i suoi colleghi di Harvard Jason Furman e Lawrence H. Summers. Nella prima fase del dibattito, Barro si è avvalso di un modello di crescita neoclassico e ha calcolato che la riforma fiscale incentiverà il tasso di crescita all’incirca dello 0,3% l’anno, che si tradurrebbe in un guadagno dello 2,8% nel Pil pro capite nei prossimi dieci anni.

 Nella loro risposta, Furman e Summers accettavano il modello di crescita proposto da Barro, ma criticavano il modo in cui l’aveva applicato. La loro strategia era brillante, in quanto restringeva il campo. Dopo aver apportato una serie di correzioni alle ipotesi sottostanti di Barro sulla riforma fiscale, hanno usato il suo stesso modello per dimostrare come il suo calcolo fosse sbagliato di “un ordine di magnitudine”. Un effetto modesto è stato reso essenzialmente trascurabile.

 Ma Furman e Summers hanno lasciato inconfutate le principali ipotesi teoriche di Barro. Quindi, se da un lato demolivano la sua dichiarazione secondo cui la riforma fiscale avrebbe un effetto significativo sulla crescita a lungo termine, dall’altro sembravano sostenere che un piano con benefici ancora più vasti per i profitti delle società e disposizioni ben più generose sugli ammortamenti avrebbero fatto di più. A mio avviso questa deduzione è falsa e potrebbe essere fuorviante per i politici che in futuro si occuperanno di normativa fiscale.

 Per comprendere perché, dovremmo innanzitutto considerare il modello di Barro, che secondo lui si attiene alle pratiche comuni della dottrina economica. Di conseguenza, equipara l’effetto della riforma fiscale sui “costi sugli utenti che le aziende attaccano agli investimenti” con il “prodotto marginale di capitale” nel “modello di crescita economica più famoso degli economisti”. Barro stima un’elasticità di 1,25 per il “coefficiente capitale/lavoro rispetto al costo sugli utenti”, in una “funzione di produzione Cobb-Douglas (comunemente utilizzata dagli economisti)”. Con questa sembra voler dire: Non infastiditemi con i cavilli teorici.

 Poi arrivano i numeri. Sulla base delle sue ipotesi sull’elasticità e di altri fattori, Barro calcola un incremento del 25% nel coefficiente capitale/lavoro di lungo termine per strutture aziendali non residenziali – immobili di banche, centri commerciali e così via – e un incremento del 17% per i macchinari aziendali. Diciamo che l’incremento complessivo sarebbe in qualche punto nel mezzo, attorno al 20%. Ciò significa che secondo Barro il pacchetto fiscale aggiungerebbe altri 10mila miliardi di dollari allo stock di capitale Usa, che oggi vale all’incirca 50mila miliardi di dollari.

 Dopo aver applicato un modesto aggiustamento al ribasso, Barro giunge alla conclusione che questo stock di capitale in più incrementerebbe il Pil a lungo termine del 7%, ovvero di 1.200 miliardi in dollari 2009. E quindi si aspetta uno sgravio fiscale netto di 1.500 miliardi di dollari nel giro di dieci anni – di cui appena 644 miliardi di dollari andranno alle imprese – che alla fine produrrà una guadagno sestuplicato di stock di capitale, e 80 centesimi sul dollaro nell’output reale annuo dopo circa 14 anni.

 Sarebbe davvero il miracolo dei pani e dei pesci. Ovviamente, i numeri di Barro sono irragionevoli, e Furman e Summers fanno bene a contestarli. Ciò nonostante, descrivono ancora il modello sottostante di Barro come “sensibile”. Forse si attengono a un modello di Cambridge di politesse che li invita a chiamare le cose con il loro nome.

 Fallacie neoclassiche
Il modello di Barro ipotizza che i tagli all’imposta sulle società, aumentando la produttività dello stock di capitale al netto delle imposte, indurrà le aziende a creare più capitale fino a quando il prodotto marginale di capitale (unità di output per unità di input) non ritornerà al suo livello di equilibrio a lungo termine, come determinato dai tassi di sconto e dal deprezzamento. Se la manodopera è pienamente occupata, gli incrementi di capitale aumenteranno la produzione totale. Nel frattempo, la quota di capitale dell’output totale crescerà a fronte del calo della percentuale dei salari, perché gli investimenti iniziali di capitale devono essere pagati con i tagli salariali, un aumento delle tasse sul lavoro, tagli alla spesa relativa ai programmi sociali, oppure indebitandosi e sostenendo i costi dei futuri rimborsi di interessi e capitale. Dopo tutto, nell’economia neoclassica, nulla viene dal nulla.

 Il primo problema con questo modello è che non vi è una buona ragione di ipotizzare che un incremento dei profitti al netto delle tasse generi investimenti nelle modalità di produzione a maggiore intensità di capitale. Barro confonde la redditività al netto delle imposte dell’attività esistente con la redditività prospettica dei nuovi investimenti. Furman e Summers questo lo sanno, che è il motivo per cui sono a favore di un maggiore ammortamento per i nuovi investimenti di capitale e di una minore riduzione dell’aliquota dell’imposta sulle società.

 Ma Barro aggiunge altra confusione con il suo trattamento della redditività attesa dei nuovi investimenti e il risultante coefficiente capitale/lavoro. Il suo modello considera il capitale come omogeneo, e fa una distinzione solo tra strutture e attrezzature. Ma il fatto è che le aziende decidono di investire non solo in base ai profitti futuri, ma anche secondo il livello tecnologico del momento.

 Normalmente, le nuove tecnologie determinano il giusto mix di strutture, attrezzature e manodopera. E poiché le tecnologie digitali tendono a risparmiare sia il capitale che la manodopera, un prezzo più basso per i beni strumentali non porta necessariamente a un maggiore uso del “capitale”. Se il prezzo di fabbricazione o delle attrezzature come i computer o i touch screen scende e i salari no, la conseguente attività dell’impresa si rivelerà di fatto a maggiore intensità di manodopera di prima. Di fatto, ciò sembra descrivere molte situazioni aziendali di oggi. La bassa percentuale di investimenti nel Pil degli ultimi anni riflette il costo relativamente basso dei nuovi macchinari elettronici, che hanno spostato sui consumi gran parte del peso richiesto per sostenere la crescita.

 È un errore neoclassico pensare che le aziende possano semplicemente cambiare le strutture con la manodopera per incentivare il coefficiente capitale/lavoro e ottenere l’obiettivo di output al costo desiderato. Costruire una struttura non-residenziale – sia essa un ospedale, una fabbrica o un megastore – significa doverla riempire di lavoratori e macchinari. Se le aziende beneficeranno di clausole più generose in fatto di ammortamenti per costruire o acquisire nuove strutture senza macchinari o lavoratori, non vedranno aumentare l’output o la produttività, occuperanno semplicemente più spazio.

Inoltre, poiché i nuovi macchinari elettronici sono fisicamente compatti e tendono a sostituire la manodopera impiegatizia e amministrativa, le strutture aziendali servono meno oggi che durante gli anni d’oro dell’industria automobilistica, del settore assicurativo e bancario. E poiché molte nuove attrezzature sono ora importate, il moltiplicatore su molti investimenti non si sentirà negli Usa, quanto nei paesi che producono beni strumentali. Nessuna riforma fiscale cambierà questi fatti.

 Pertanto, anche quando ci saranno investimenti futuri, è improbabile che aumentino il coefficiente capitale/lavoro o il tasso reale di crescita. E anche se Barro, Furman e Summers dovessero sostenere che nuovi beni strumentali siano “meglio” e quindi rappresentino “di più”, ciò non cambia il fatto che il costo attuale dei beni e la percentuale degli investimenti nell’output (in dollari) possano entrambi registrare una flessione.

 Ritorno alla realtà
Chiaramente, il modello Barro – e non solo il suo particolare modo di usarlo – è assurdo. Un’alternativa migliore si focalizzerebbe sull’economia politica e sulla condotta delle aziende. Un’analisi di questo tipo genera affermazioni che sono meno assolute nella loro certezza; e questa è una buona cosa.

 Nel mondo reale, le imprese investono per due ragioni: per espandere la produzione e ridurre i costi. La prima ragione richiede la fiducia nel futuro incremento delle vendite. La prossima riforma fiscale potrebbe incentivare le vendite a breve termine, a causa del suo effetto fiscale temporaneo. Eppure sembra puntare direttamente al potere di acquisto della classe media, mettendo limiti alle deduzioni per i pagamenti degli interessi sui mutui e per le tasse statali e locali (SALT). Questo, a sua volta, si tradurrà in una minore domanda parte dei consumatori e in una minore spesa per i servizi pubblici. Invece di creare un clima favorevole per i consumi e gli investimenti privati, la vasta ridistribuzione al rialzo di reddito e ricchezza prodotta dalla riforma è destinata a deprimere la spesa, a prescindere dalla possibilità o meno che le aziende possano conservare una percentuale più ampia dei loro flussi di cassa.

A complicare ulteriormente le cose, c’è la risposta della Fed alla riforma fiscale e l’effetto che avranno sull’economia gli aggiustamenti della politica monetaria. Storicamente, ci sono state occasioni in cui un rialzo dei tassi di interesse preparava il terreno a un boom delle imprese a lungo termine, come nel febbraio 1994, quando la politica della Fed spinse le banche ad abbandonare gli strumenti sicuri e a spostarsi sui prestiti commerciali e industriali. Ma all’epoca, la rivoluzione tecnologica doveva ancora nascere, e le banche dovettero spingere per far ridurre la loro dipendenza da un’elevata pendenza della curva dei rendimenti. È improbabile che si ripeta oggi lo stesso modello.

 Oggi, se la Fed decidesse di aumentare i tassi di interesse più rapidamente, il valore del dollaro salirebbe, e i beni strumentali importati diverranno più allettanti rispetto a quelli prodotti a livello domestico, così penalizzando la crescita. Inoltre, alcuni analisti temono una crisi imminente dei finanziamenti nel resto del mondo, cosa che scatenerebbe una fuga verso asset più sicuri come i buoni del Tesoro, intensificando ulteriormente l’apprezzamento del dollaro. Se ciò portasse a un’altra crisi finanziaria, la debole posizione di alcune delle maggiori banche al mondo sarebbe esposta, e il periodo di crescita subirebbe un arresto. Il modello di Barro non lascia spazio al rischio finanziario. Ma le aziende incoraggiate a fare nuovi investimenti certamente sì.

 Un’area in cui la riforma fiscale potrebbe effettivamente generare uno slancio è l’edilizia commerciale, se le aziende interessate decidessero collettivamente di espandersi per proteggere la propria quota di mercato, un processo anti-concorrenziale che l’economista Joseph Schumpeter ha definito “co-respective behaviour” (comportamento di rispetto reciproco). In modo analogo, il trattamento fiscale favorevole per le strutture potrebbe consentire alle aziende dominanti di imporsi con forza sulla rimanente fetta di mercato di piccoli commercianti, ristoratori e altri fornitori di servizi. Se così fosse, possiamo aspettarci una bolla, seguita da una contrazione, nelle strutture commerciali.

 Le possibilità che questo accada non sono trascurabili. Come sanno certamente gli architetti del nuovo pacchetto fiscale, le ultime due espansioni economiche, alla fine degli anni 90 e a metà dei 2000, sono state il risultato delle bolle azionarie generate dal “co-respective behaviour”, prima di tutto da parte degli investitori in tecnologia, e poi da parte degli speculatori in mutui corrotti. Sicuramente una nuova bolla genererebbe applausi e vantaggi politici nel breve termine. Ma il risveglio non sarebbe altrettanto positivo.

 Oligarchi, state tranquilli
Per bloccare una bolla edilizia, ci sono altre due possibilità per i mesi e gli anni a venire. La prima: la riforma potrebbe produrre un’impennata dei flussi di cassa aziendali al netto delle tasse, che saranno riallocati (“rubati” potrebbe essere una parola troppo forte, ma non del tutto) verso i compensi dei dirigenti, riacquisti di stock e proprietà immobiliari, soprattutto se le case, avendo perso il proprio stato fiscale privilegiato, saranno svendute e convertite in immobili in affitto. In questo scenario, l’oligarchia dell’America potrebbe in qualche modo espandersi e diversificarsi, e la sua spesa potrebbe persino fornire un modesto slancio alla crescita reale del Pil nel breve termine; anche se inevitabilmente seguirà una fase di contrazione. 

L’altra possibilità è che le imprese, essendosi assicurate trattamenti fiscali più favorevoli, di fatto ridurranno gli investimenti. I dirigenti delle aziende non saranno ciechi di fronte alla prospettiva di un generale rallentamento nei consumi che seguirà l’iniziale effetto fiscale della riforma, soprattutto nel momento in cui i governi statali e locali saranno costretti a fare economia messi sotto pressione dagli elettori della classe media che non potranno più dedurre gli ammortamenti SALT a livello federale. 

In questo secondo scenario si applicherà il motto dell’economista polacco Michał Kalecki: «I capitalisti prendono quello che spendono». I profitti esentasse potrebbero non aumentare di molto, e gli oligarchi dell’America avranno la pancia piena e resteranno felici, pur facendo meno. Il costo sarà tutto sulle spalle degli americani della middle-class con mutui e case che potrebbero dover vendere; e come sempre, sulle spalle dei poveri, che soffriranno per l’aumento delle tasse sulle vendite, per i tagli alla previdenza sociale e per la disoccupazione. 

E perché dovremmo aspettarci un risultato diverso? Dopo tutto, questa non è solo la riforma fiscale di Trump. È quello che ha sempre voluto la “donor-class” repubblicana.
 

James K. Galbraith, autore di The End of Normal, è professore presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs, University of Texas.

 Copyright: Project Syndicate, 2018.

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