Commenti

Il buio oltre la siepe elettorale

  • Abbonati
  • Accedi
L'Editoriale|il voto e l’europa

Il buio oltre la siepe elettorale

Come si fa a non essere preoccupati per l’esito delle prossime elezioni parlamentari? L’Italia è a un bivio. Il 4 marzo deciderà quale direzione prendere. Verso l’occidente rappresentato da un’eurozona in grado di governare la propria integrazione monetaria ed economica (l’Europa di Ventotene) oppure verso l’oriente rappresentato da un’associazione di stati prigionieri dei propri umori nazionalisti e sovranisti (l’Europa di Visegrad). Si tratta di due Europe non compatibili. L’Europa di Visegrad è fatta di democrazie illiberali e opportuniste. Democrazie che combinano il nazionalismo con il populismo. Dietro quell’Europa c’è una Russia da tempo impegnata a indebolire la coesione europea, nel tentativo di svuotare dall’interno un allargamento che continua a vivere come una minaccia dall’esterno. L’Europa di Ventotene è fatta invece di democrazie liberali e solidali, impegnate ad avanzare nel processo di integrazione per tenere sotto controllo il loro nazionalismo e le sue degenerazioni populiste. È un’Europa che non piace a chi la vuole strutturalmente subalterna (a Mosca o a Washington, non ha importanza).

Non pochi leader politici e candidati italiani ci stanno spingendo verso oriente. Per inconsapevolezza oltre che per scelta. Parlano come se l’Italia fosse un Paese del tutto indipendente. Non si sono accorti che le nostre politiche pubbliche più importanti sono da tempo interdipendenti con quelle degli altri Paesi europei. Per loro, la politica è una attività sociale che non richiede competenza. Così, c’è chi dice che dovremmo introdurre i dazi (senza sapere che la politica doganale è definita dall’Unione europea), chi dice che dovremmo rispedire a casa 600mila clandestini (senza sapere i costi relativi dell’operazione di rimpatrio), chi dice che si può “sfondare” il parametro del deficit pubblico sul Pil (senza sapere che ciò avrebbe conseguenze letali sul nostro debito pubblico), chi dice che occorre abolire le tasse universitarie (senza sapere che ciò avvantaggerebbe i figli dei ricchi e non dei poveri), chi dice di abolire “la legge Fornero” (senza sapere che ciò porterebbe al collasso il nostro sistema previdenziale). In campagna elettorale se ne sparano delle grosse, ma questa volta la grossolaneria è sfrenata.

Nessuno di noi andrebbe a farsi operare da un chirurgo che non sa quello che fa (anche se è tifoso della nostra squadra del cuore). Come è possibile affidare il governo della cosa pubblica a chi non sa di cosa parla? L’Italia è un paradosso, ha osservato uno studioso americano. Chi si dimostra consapevole dell’interdipendenza europea (il centro-sinistra) è destinato a non vincere le elezioni, mentre chi sembra destinato a vincerle (il centro-destra) o ad affermarsi come primo partito (i Cinque Stelle) di quella interdipendenza non gliene importa nulla o non ne è consapevole.

Eppure, l’interdipendenza europea sta cambiando da tempo la struttura della politica domestica. Non solo in Italia, la fondamentale divisione politica è sempre meno rappresentata dalla frattura tra partiti di sinistra e partiti di destra e sempre di più tra partiti che vogliono fermare il processo di integrazione e partiti che vogliono rafforzarlo. L’accordo trovato a Berlino tra i rappresentanti dei tre principali partiti (Cdu, Csu e Spd), per dare vita a un nuovo governo di coalizione, è l’ulteriore dimostrazione della trasformazione indotta dal processo di integrazione. La distanza tra la sinistra (Spd) e la destra (Cdu-Csu) europeiste è di gran lunga inferiore alla distanza tra di loro e i partiti sovranisti e nazionalisti (come Alternative für Deutschland o Die Linke). Se approvato dagli iscritti della Spd nel prossimo referendum, l’accordo di governo spingerà decisamente la Germania verso l’Europa di Ventotene. Nell’accordo di Berlino, l’élite politica tedesca ha messo in discussione la sua visione incrementale e disciplinare dell’integrazione monetaria. Ha scritto Wolfgang Münchau sul Financial Times, «la Germania ha alzato bandiera bianca nel dibattito sull’Eurozona» accettando ciò che aveva considerato inaccettabile per anni, come il completamento dell’unione bancaria, la creazione di un’unione fiscale, la trasformazione del fondo salva-stati (Esm) in un fondo comunitario da utilizzare per politiche sovranazionali. Forse è eccessivo parlare di cambiamento di paradigma. Tuttavia, i principali partiti tedeschi hanno capito che l’interdipendenza va governata, non subìta. Altrimenti ci si indebolisce, come si è visto nelle elezioni del 24 settembre scorso. La nuova (eventuale) grande coalizione disporrà di 399 membri sui 709 del Bundestag, una maggioranza del 55% contro il 95% della prima grande coalizione (nel 1965).

L’accordo di Berlino è la risposta al discorso tenuto dal presidente francese Emmanuel Macron all’università parigina di La Sorbonne lo scorso 26 settembre. I prossimi mesi ci sarà, tra i governi dei due Paesi, un confronto serrato sul futuro dell’eurozona il cui esito avrà conseguenze sugli altri Paesi membri di quest’ultima. Tant’è che nella stessa Spagna (seppure tramortita dalla vicenda catalana) si è aperta una discussione sulla trasformazione dell’attuale governo di minoranza (del Partito popolare) in un governo di coalizione con i principali partiti europeisti, proprio per partecipare a quel confronto. Dopo tutto, anche in Francia c’è un governo di coalizione (tra il centro-destra e il centro-sinistra europeisti). Insomma, nei principali Paesi dell’Eurozona, le sfide europee vengono affrontate da governi di coalizione tenuti insieme da una chiara scelta europeista. In quel confronto, non c’è posto per alleanze tra sovranisti ed europeisti, come quella rappresentata dal centro-destra italiano. Quella alleanza può vincere le elezioni ma non può governare. Così come non potrebbe governare (ammesso che ne avesse i numeri) un’alleanza del centro-sinistra con la sinistra radicale, né un partito (come i Cinque Stelle) che ha un programma ambiguo e reticente sulle questioni europee.

La destrutturazione del nostro sistema dei partiti, seppure nascosta dalla banalità delle leadership personali, riemergerà drammaticamente dopo il 4 marzo. Non ci si libera dalla tirannia della banalità con formule governative a loro volta banali. Lo stallo del 4 marzo non si risolverà con il “governo del presidente”, una formula che (come ha ricordato Giorgio Napolitano) è priva di qualsiasi senso istituzionale (i nostri governi debbono essere necessariamente del Parlamento). Così quello stallo non potrà essere gestito da un nuovo “governo tecnico” o peggio ancora dallo scioglimento a ripetizione del Parlamento. Dopo il 4 marzo si dovrà piuttosto manifestare in Parlamento la distinzione tra chi è a favore dell’Europa di Ventotene e chi dell’Europa di Visegrad. Il buio che si nasconde dietro la siepe elettorale del 4 marzo (per parafrasare il celebre romanzo di Harper Lee) potrà essere rischiarato solo da una coalizione europeista trasversale e senza confini partitici. Rappresentata quindi da un governo in grado di contribuire alla riforma dell’Europa di Ventotene.

© Riproduzione riservata