Gentile Dott. De Biase,
nella rubrica di sabato 27 gennaio scorso ho trovato assai importanti le richieste dei Colleghi dell’Università degli Studi di Padova per una dichiarazione pre-elettorale di intenti programmatici «per un’Università moderna e innovativa». E riterrei altrettanto utili per le decisioni di merito dei futuri responsabili della pubblica istruzione e dell’università, alcune sue sottolineature, tutt’altro che di contorno ma ben centrate e ricche di sostanza. Mi riferisco in particolare alla franca descrizione della “stranezza” dell’Italia nelle comparazioni internazionali e intra-nazionali (giacché «in realtà, esistono diverse Italie, e sono divergenti»). E mi soffermerei in particolare, non solo sul dato obiettivo che «alcuni Politecnici e Università non hanno problemi economici», ma anche e soprattutto sul fatto, costituzionalmente assai grave, che vi sia nella medesima Italia una disparità di trattamento tra gli universitari che pagano le tasse e che ora rientrano ora non rientrano nell’ottica degli articoli 3 e 34 della suprema legge dello Stato. Lei scrive: «Non tutti gli atenei interpretano il loro ruolo con grande e incontaminata dedizione al bene comune e allo sviluppo umano». E conclude: «Di conseguenza, anche le politiche dovrebbero tener conto delle diverse condizioni nelle quali si trovano i diversi territori del Paese». Le “condizioni”, per l’appunto. I condizionamenti sociali che decidono a priori dei termini del rapporto industria-università, università-economia territoriale, ricerca-innovazione/innovazione-ricerca. Ecco perché è qui che si gioca la partita più ardua ed è con questi strumenti che l’Italia vince oppure l’Italia perde la faccia (e non solo): «Con corsi universitari che si occupano con passione di costruire i cittadini di domani. E con altri che invece non sono all’altezza di un compito tra i più importanti possibili». Il che, in parole semplici e comprensibili da chiunque (anzitutto dagli studenti) vuol dire affrontare per le corna il toro infuriato del circolo virtuoso ricerca-didattica/didattica-ricerca. Fino a quando la politica dell’istruzione e della ricerca non avrà il coraggio di mettere il naso e di dettar legge nella vita reale degli atenei, delle facoltà, dei dipartimenti e dei corsi di laurea, l’università non riuscirà a essere all’altezza del suo «compito tra i più importanti possibili». Mentre la politica, più che «all’altezza della sfida che il momento storico lancia al Paese», garantirà solo il carro funebre delle vitali “domande” e il funerale delle “ipotesi d’azione” esplicitamente o implicitamente suggerite. Domanda degna del nostro “Paese piùttosto strano”: e se Don Milani avesse già sperimentato a Barbiana, con i suoi ragazzini senza tutela, il modello di università del domani che più servirebbe oggi in Italia? Ipotesi d’azione civile: andare (comunque) a votare. Rimboccarsi le maniche. Informarsi seriamente su chi sia il gruppo politico più affidabile nel proporre un’idea donmilaniana e humboldtiana di tal genere. E, se lo si trova, votarlo. Altrimenti, recarsi lo stesso votare, ma senza fare nomi. E a chi ti chiedesse come mai, spiegare calmo calmo il perché.
Nicola Siciliani de Cumis
Ordinario fuori ruolo di Pedagogia generale, Sapienza Università di Roma
Gentile Professore, abbiamo bisogno di un’università all’altezza della situazione e in molti casi ce l’abbiamo. Non in tutti purtroppo. Siamo di fronte alla necessità di alzare ulteriormente il livello degli atenei eccellenti e contemporaneamente di recuperare alla qualità gli atenei meno avanzati. Aprendo nel contempo una quantità di cantieri efficaci per la terza missione dell’università, quella che oltre alla didattica e alla ricerca porta alla società e all’economia i frutti dell’avanzamento delle conoscenze. Le questioni poste dai professori che hanno scritto a questa rubrica un paio di settimane fa sono importanti. Alla prima delle loro domande ha risposto la realtà: gli studenti universitari stanno finalmente riprendendo a crescere e le matricole quest’anno probabilmente torneranno a superare la soglia dei 300mila, come ha riportato Il Sole 24 Ore qualche giorno dopo il loro intervento. Da questo punto di partenza nasce urgente un senso di responsabilità nei confronti di quei giovani che richiede risposte anche alle domande successive di quei professori, quelle che chiedono una visione politica alta e contemporanea del ruolo dell’università.
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