Nella foto del 2006 che mi mostra Gianni De Gennaro compaiono lui – con un sorriso e una espressione da uomo felice - e il direttore dell’Fbi che guarda dritto nell’obiettivo della macchina. «È Robert Mueller», spiega De Gennaro. Quel Robert Mueller che, adesso, sta indagando come procuratore speciale sui rapporti fra la Russia di Putin e la campagna elettorale di Trump.
Siamo al Centro Studi Americani in via Caetani, di cui è presidente dal 2013. L’immagine di dodici anni fa ritrae la consegna della Fbi’s Medal da parte del capo del Federal Bureau of Investigation al capo della Polizia italiana. Nelle motivazioni, si leggono la vita e il metodo di De Gennaro, che riceve il principale riconoscimento del Bureau – per la prima volta conferito a un partner straniero - per «il suo ruolo centrale in una relazione che dura da decenni rivolta contro le connessioni del crimine organizzato negli Stati Uniti e in Italia e che è evoluta in un modello di cooperazione internazionale delle forze dell’ordine». Le parole essenziali sono due: modello e cooperazione. Una delle forme più sofisticate e concrete - meno appariscenti e teoriche - dell’atlantismo che ancora oggi unisce l’Italia agli Stati Uniti e gli Stati Uniti all’Italia.
In questo palazzo in cui mi conduce De Gennaro, percepisci la natura proteiforme e sincretista di Roma, che abbraccia e mescola la realtà e l’immaginazione, il passato e il presente, la storia e il futuro, l’Italia e il mondo, nello specifico gli Stati Uniti. Siamo al limitare del ghetto ebraico. Qui visse, lesse e scrisse Giacomo Leopardi, prima del suo periodo a Torre del Greco. In questa strada, nel 1978, le Brigate Rosse lasciarono su una Renault 4 rossa il corpo senza vita di Aldo Moro. Poco distante si trova via delle Botteghe Oscure, per mezzo secolo sede del principale Partito Comunista dell’Occidente. Questo edificio ospita la biblioteca che, in cento anni di vita, ha raccolto 50mila volumi sulla storia americana, non solo contemporanea: si sta catalogando un prezioso fondo su Cristoforo Colombo. E, quest’anno, prenderanno il via l’ordinamento e la catalogazione dell’archivio storico del Centro Studi.
A metà pomeriggio di un giorno di inverno, Gianni De Gennaro si siede cortesemente davanti alla sua scrivania, mi fa accomodare dirimpetto a lui e mi offre caffè e pasticcini secchi. Ha i capelli bianchi, gli stessi della foto scattata a Washington nel 2006. L’abito è elegantemente blu scuro, come la cravatta, nella eterna divisa dei civil servant italiani di alto profilo, che riescono a non sembrare vestiti tutti dallo stesso sarto come quelli inglesi e americani. «L’atlantismo? Non ho una definizione scientifica e tecnica del rapporto degli Stati Uniti con il nostro Paese. Non so dare lezioni di geopolitica e di geoeconomia. So quello che ho visto e vissuto. E so quello che ho imparato da presidente del Centro Studi Americani».
Pier Paolo Pasolini regalava titoli agli amici scrittori. Enzo Siciliano avrebbe potuto ispirarsi a De Gennaro per una “Vita ordinaria di un poliziotto qualunque”. Lavora, per tutti gli anni Ottanta, con Giovanni Falcone. Nel 1993 è nominato direttore della Direzione investigativa antimafia, nel 1994 prefetto e direttore centrale della Criminalpol, nel 2000 capo della Polizia e nel 2008 direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’organo di coordinamento dei servizi segreti.
Nel luglio del 2013, De Gennaro diventa presidente di Finmeccanica e, nell’autunno di quell’anno, presidente del Centro Studi Americani. In estate si ritira in Maremma, con la moglie Carla – sono sposati da 46 anni, «quando litighiamo, le dico che le mogli sono l’unico tribunale che non conosce l’istituto della prescrizione» – i figli Francesco e Giulio e i tre nipoti Giovanni, Luca e Carolina. Quest’anno, il 14 agosto, compirà settant’anni.
«L’atlantismo – spiega De Gennaro – è per me una forma culturale, prima che politica. Il forte legame con gli Stati Uniti rimane essenziale per il nostro Paese. È un valore fondamentale anche nella formazione delle coscienze dei giovani. Qui al Centro Studi Americani, con le nostre conferenze e i nostri seminari, ospitiamo moltissimi ragazzi. E, in un passaggio come questo in cui esistono poche certezze, la diffusione della cultura e del dialogo, della ricerca e del confronto intellettuale è una bussola utile per dare un senso alle cose».
L’atlantismo è pure una forma rinnovata di esempio storico. «Al Centro Studi Americani stiamo lavorando sui settant’anni del Piano Marshall, il grande programma politico ed economico degli Stati Uniti con cui l’Europa trovò una sua strada verso il futuro dopo il disastro della Seconda guerra mondiale. Penso che quello sia un modello utile per provare a ripensare il destino dell’Africa. Le migrazioni bibliche sono il risultato di condizioni economiche e sociali estreme. Oltre all’accoglienza, diventa indispensabile immaginare, in particolare in Europa e dall’Europa, interventi strutturali nel Sud del Mondo», dice De Gennaro.
Ogni cosa va veloce. Il vecchio atlantismo appartiene a un’epoca in cui si fronteggiavano i due blocchi, le democrazie occidentali e il socialismo reale. Ora tutto è cambiato. Il terrorismo internazionale è una novità. Internet è una nuova infrastruttura in sé neutra, valida per le guardie e per i ladri, per i buoni e per i cattivi. A questo punto De Gennaro si ferma e inseguendo un suo pensiero inizia a ricostruire: «Ricordo il capo dei servizi segreti di Gheddafi. Era un fine intellettuale, un professore universitario. Le carovane che portavano i migranti dai Paesi confinanti con la Libia passavano per il deserto. Mi raccontò che il capocarovana più imprendibile era cieco. Guidava quelle lunghe file di uomini toccando la sabbia del deserto e decidendo così dove andare. L’esercito di Gheddafi non riusciva a catturarlo».
Oggi noi siamo come quel capocarovana cieco. Il profilo delle dune della Storia è diverso da quello del vecchio mondo. Dobbiamo provare ad auscultare la sabbia per capire come si stanno riconfigurando gli equilibri. L’America ha espresso alla Casa Bianca Donald Trump, un outsider rispetto alle tradizioni del Partito Repubblicano e del Partito Democratico.
«Nonostante tutti i cambiamenti – riflette De Gennaro – il nostro rapporto privilegiato con gli Stati Uniti ha una sostanza e un metodo che si sono costruiti negli anni Ottanta e che ho potuto toccare con mano nella mia attività professionale. La solidità di questa relazione è continuata anche quando, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, sono cambiati i Governi e i loro orientamenti politici. C’è una continuità di fondo: nella sicurezza, ma non solo».
Ogni tanto, Gianni De Gennaro chiude gli occhi riducendoli prima a fessure e poi a spilli neri. Nel 1981 partecipa a un corso della Dea, l’antidroga americana, a Washington. Ha poco più di trent’anni. È di famiglia borghese. Ha fatto il liceo classico dai Gesuiti, al Massimiliano Massimo di Roma. Ha una laurea in giurisprudenza. A Roma ha lavorato al commissariato di Castro Pretorio, dietro Via Veneto («era ancora quella Via Veneto, anche per la malavita, i Marsigliesi avevano lì le ragazze più belle, quanti incidenti e tamponamenti c’erano ogni giorno...»). Nel 1980 è entrato nell’ambasciata del Belgio liberando, pistola in mano, trenta ostaggi da uno squilibrato. Come il Don Ciccio Ingravallo comandato alla mobile di “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” di Carlo Emilio Gadda: «Una certa praticaccia del mondo detto latino, benché giovine, doveva di certo avercela».
Nel 1981, dunque, l’invito a Washington. «Era un corso destinato al middle level management, con colleghi da tutto il mondo. Ciascuno illustrò le legislazioni antidroga del proprio Paese. Ricordo lo faccia del collega norvegese quando quello di Singapore spiegò che da loro erano previste sedici frustate in pubblico». Avere trent’anni è avere trent’anni. «A Washington ci dissero: non andate assolutamente dalla quattordicesima strada in giù. Io e un collega della mobile di Napoli, naturalmente, ci precipitammo. Italiani, con un inglese approssimativo e senza pistole. La percezione di pericolo fu nettissima. Tornammo rapidamente in albergo», sorride.
Al di là degli elementi picareschi, è allora che iniziano a costruirsi le condizioni umane, giuridiche e politiche – non nel senso dei partiti, ma delle istituzioni e dei rapporti fra le persone – per la collaborazione fra gli Stati Uniti e l’Italia. «Erano metodi investigativi e di contrasto ai fenomeni criminali diversi. Loro erano avanti nella analisi dei dati. Abbiamo imparato molto».
Fra il 1979 e il 1984, l’Fbi conduce l’inchiesta Pizza Connection sul narcotraffico fra gli Stati Uniti, l’Italia e la Svizzera. Produzione e smercio di eroina, pagamenti estero su estero e riciclaggio. Le pizzerie e i ristoranti di New York e del New Jersey come “rete commerciale” della droga. Per smontare il meccanismo criminale operano insieme l’Fbi, la Polizia italiana e il New York Police Department. Il giudice Giovanni Falcone e il poliziotto Gianni De Gennaro hanno un ruolo fondamentale. Nel 1984 cura l’estradizione dal Brasile di Tommaso Buscetta: nei colloqui sull’aereo con De Gennaro, in Buscetta prende corpo l’idea di collaborare con la magistratura, costituendo così – due anni dopo - uno dei perni del Maxiprocesso a Cosa Nostra. Il trattato di mutua assistenza in materia penale fra Italia e Stati Uniti è del 1982. Quello per l’estradizione è dell’anno successivo. La disciplina italiana sulla protezione dei collaboratori del 1991 trae ispirazione dal Witness Protection Act.
Sottolinea De Gennaro: «È fin dai primi anni Ottanta che si costruiscono i rapporti di fiducia e di stima fra le persone, il metodo della collaborazione fra i gruppi di lavoro al di qua e al di là dell’Atlantico e lo scambio di informazioni fra l’Italia e gli Stati Uniti». Naturalmente, le scuole investigative si confrontano e cooperano. E ciascuna affina il proprio stile di lavoro. «Nel 1981 – ricorda – Falcone inizia a impostare il suo metodo. Tramite la ricostruzione delle girate degli assegni, riuscì a comprendere e a fare emergere il profilo di alcune Famiglie di Cosa Nostra in Italia».
Le analisi dei dati degli americani sono più formalizzate. Il loro approccio quantitativo è più sistematizzato. E rappresentano una cifra specialistica precisa, fondamentale per contrastare il crimine organizzato, partendo dall’elemento finanziario. «Anche noi, anno dopo anno, abbiamo approfondito e perfezionato la nostra capacità in questo campo. Nell’operazione Green Ice, con cui nel 1992 colpimmo il traffico di cocaina fra la Mafia, la ‘Ndrangheta e la Camorra e i Narcos colombiani, ebbe un ruolo fondamentale Alessandro Pansa, che vent’anni dopo sarebbe diventato capo della Polizia. Sua madre faceva la professoressa di matematica in un liceo di Eboli. Lui aveva una grande testa per i numeri. Ricostruì tutti i movimenti di denaro fra l’Italia e l’America».
L’Italia e l’America. L’atlantismo morbido e profondo delle relazioni culturali. L’atlantismo visibile e invisibile della politica e dell’economia. L’atlantismo silenzioso e persistente del potere. L’atlantismo curioso ed entusiasta dei ragazzi che frequentano le conferenze e la biblioteca del Centro Studi Americani. E, anche, quello che si nasconde nel dolore dei segni. «Ho visto Giovanni Falcone per l’ultima volta a una cena proprio all’ambasciata americana, a Villa Taverna. Era la sera di mercoledì. Avemmo una discussione accesa. Io non volevo che lui tornasse a Palermo. Era troppo esposto. Gli dissi di rimanere a Roma. Roma era meno pericolosa della Sicilia. Non mi ascoltò. Il 23 maggio 1992, a Capaci morirono Giovanni, la moglie Francesca e tre poliziotti della scorta. Era il pomeriggio di sabato».
Si ferma, reclina leggermente la testa verso destra, tira fuori il pacchetto di sigarette: «Le dispiace se fumo?». No, Prefetto De Gennaro, non mi dispiace se fuma.
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