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Dossier Il ritorno dei “valori asiatici”

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Dossier | N. 57 articoli Mappamondo

Il ritorno dei “valori asiatici”

HONG KONG – Nel 1998, quando l’ascesa economica della Cina era appena ai suoi albori, Kishore Mahbubani scatenò una sorta di tempesta intellettuale globale con il suo libro Can Asians Think? Vent’anni dopo, con l’Asia che forma il cuore dell’economia mondiale, e la Cina che sfida gli Stati Uniti per l’egemonia nella regione Asia-Pacifico e anche per la leadership globale, la domanda di Mahbubani guadagna una nuova, e forse più profonda, risonanza.

 C’è da dire che Mahbubani non si chiedeva se agli asiatici mancassero le abilità cognitive degli altri, si domandava se l’Asia – una regione che comprende Paesi del tutto differenti, dal Giappone a Singapore – possedesse un proprio quadro intellettuale, un quadro che non rientra nel paradigma occidentale dominante. C’erano forse specifici valori asiatici a cui le persone della regione si attenevano? E questa domanda era ancora una strada praticabile per comprendere il funzionamento di una regione che si stava rapidamente modernizzando?

 Alcuni osservatori rispondevano alla domanda di Mahbubani asserendo che i principali valori asiatici – come il duro lavoro, il pragmatismo e la famiglia – non sono esclusivi dell’Asia. Altri ribattevano che i valori asiatici non solo fossero unici, ma anche superiori a quelli dell’Occidente. Mahbubani concordava sul fatto che l’Asia avesse i propri valori e le proprie tradizioni intellettuali, che a suo avviso meritavano almeno pari rispetto e considerazione di quelli dell’Occidente – visti anche i mediocri risultati del sistema occidentale. Nel momento in cui Mahbubani pubblicò il suo libro, la crisi finanziaria asiatica del 1997 aveva appena decimato molte delle economie della regioni, grazie – e di questo erano convinti molti asiatici – alle predominanti idee economiche occidentali.

 Oggi, 20 anni dopo che Mahbubani diceva la sua su quello che è diventato noto come il “dibattito sui valori asiatici”, parlare del carattere intellettuale distintivo dell’Asia riguadagna popolarità ancora una volta, grazie in parte all’assertiva leadership politica del presidente cinese Xi Jinping e del primo ministro indiano Narendra Modi. E si solleva una domanda tripartita: Cosa possiamo imparare dal dibattito sui valori asiatici? Quali aspetti trascura? E in che modo potrebbe essere più proficuo?

 

Una crisi di valori
Quando fu pubblicato, il libro di Mahbubani si poneva in netto contrasto con un altro libro – The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama – la cui pubblicazione cinque anni prima riscosse un successo ancora maggiore. La tesi di Fukuyama era che a seguito del crollo del comunismo la democrazia liberale e il capitalismo dei mercati liberi regnassero incontrastati. Nessun altro sistema, a suo avviso, poteva sfidare il capitalismo democratico in termini di libertà politica e prosperità economica.

 Per un attimo, la profezia di Fukuyama sembrava essere corretta. Gli ex Paesi comunisti come quelli dell’Europa centrale e dell’Est stavano consolidando la democrazia e abbracciando il mercato. Anche la “riforma e l’apertura” di Deng Xiaoping al mondo sembrava aprire la strada a una futura apertura democratica. Che la storia fosse “finita” o no, il mondo democratico e capitalista sembrava essere il posto giusto.

 La crisi finanziaria asiatica sembrava, almeno inizialmente, rafforzare questa convinzione, perché la crisi aveva consumato alcune delle maggiori storie di successo della regione e presumibilmente screditava il modo di agire dell’Asia. Mentre però stati come la Malesia, che rifiutavano le cure economiche proposte dal Fmi, si riprendevano dalla crisi con maggiore rapidità rispetto a quei Paesi che hanno seguito i consigli del Fondo, iniziavano a sollevarsi in tutta la regione i dubbi sull’attendibilità della saggezza occidentale. Le idee occidentali, così sembrava, forse non erano così vincenti dopo tutto.

 Dieci anni dopo la pubblicazione del libro di Mahbubani, però, le cose cambiarono ulteriormente. Usa ed Europa erano immerse in una crisi prodotta da loro stessi – una crisi così grave da inglobare gran parte dell’economia mondiale, con grande disappunto dei governi asiatici, che avevano intrapreso dolorose riforme per difendersi da tali episodi.

 Sembrava vi fossero delle idee confuse alla base della crisi del 2008. Per parafrasare la lezione del Premio Nobel Friedrich von Hayek, la “perfezione” dei modelli economici che governi ed economisti utilizzavano per predire il futuro fu accusata di essere una mera “messinscena”. Il pensiero economico occidentale fu accusato di essere un imperatore che, pur non essendo del tutto nudo, si trovava in uno stato avanzato di svestizione.

 Gravi le conseguenze della farsa: un decennio perduto di crescita e stagnazione, in cui i governi occidentali hanno accumulato massicci debiti e le banche centrali hanno ampliato i propri bilanci con esperimenti tipo “quantitative easing”. Allo stesso tempo, la disuguaglianza economica, la fragilità sistemica e la polarizzazione politica si sono intensificate, rinforzando i dubbi asiatici non solo sulle idee occidentali, ma anche sulla leadership occidentale dell’economia globale.

 La crescente sensazione che le prescrizioni politiche del mercato libero che comprendevano il cosiddetto Washington Consensus, e i politici che le avevano sostenute, avessero fallito alimentò l’ascesa delle democrazie illiberali e dell’autocrazia in Ungheria, Polonia, Turchia e in altri Paesi. Anche gli Stati Uniti – portavoce del capitalismo democratico occidentale – hanno fanno i conti con queste pressioni, esemplificate dall’elezione del presidente Donald Trump, che ha abbracciato il protezionismo e attaccato – almeno a livello retorico – il sistema di “checks and balances” alla base della democrazia americana.

 Non sorprende che i dubbi asiatici sulle idee occidentali abbiano continuato a crescere. In Cina, il governo insiste sul fatto che scuole e università ripongano maggiore enfasi sull’insegnamento del pensiero cinese (una riforma che si affianca al desiderio del governo di consolidare la propria legittimità intellettuale e politica). Anche altri Paesi asiatici, come la Corea del Sud e l’India, stanno cercando di promuovere le proprie tradizioni intellettuali domestiche, anche se non da diretti competitor delle idee occidentali, almeno come tradizioni analitiche paritarie per comprendere il mondo.

 
Un’apertura per il “Resto”

A dirla tutta, Fukuyama e i teoreti democratici con idee affini non sono mai stati quegli assoluti sostenitori dell’Occidenti come volevano dipingerli gli esperti. Anzi, Fukuyama riconosceva che il sistema democratico liberale dominante dell’Occidente non fosse né inevitabile né applicabile in tutti i Paesi. Nel suo libro del 2014 Political Order and Political Decay: From the Industrial Revolution to the Globalization of Democracy, Fukuyama si spinse oltre, riconoscendo come la recente esperienza della Cina abbia dimostrato che «i governi autoritari possono talvolta essere più capaci di quelli democratici di rompere in modo decisivo con il passato».

 Come osserva Robert Skidelsky della Warwick University, un problema chiave con il pensiero economico occidentale risiede nell’aridità intellettuale della categoria degli economisti. La Grande Depressione degli anni Trenta, osserva Skidelsky, ha prodotto l’economia keynesiana. La stagflazione degli anni 70 ha prodotto il monetarismo di Milton Friedman, che ha rivoluzionato la formulazione delle politiche. Eppure, un decennio dopo l’inizio della Grande Recessione, non c’è consenso su una svolta nel pensiero economico occidentale dominante.

 Mentre l’Occidente lottava, l’Asia ha continuato ad andare avanti, con Cina, India e le economie del Sudest asiatico che rappresentano il 63% della crescita del Pil mondiale e oltre la metà dei nuovi consumi negli ultimi 15 anni. I Paesi che Fareed Zakaria una volta definì il “il resto” sono ora destinati a superare l’Occidente in termini di livelli di output, consumi e risparmi globali.

 Ciò suggerisce che la recente crescita dell’Asia non possa essere semplicemente liquidata come una pura questione di economie in via di sviluppo che tentano di raggiungere le controparti avanzate. Ma, come suggerisce Hamid Dabashi della Columbia University, le economie dell’Asia, dopo secoli di dominazione imperiale, sembrano finalmente agire in base alle idee, alle strutture e ai valori della propria gente. Nel suo libro del 2015 Can Non-Europeans Think? – un titolo che consapevolmente riecheggia quello di Mahbubani – Dabashi sostiene che il problema non è mai stato che “il resto” non avesse proprie strutture teoretiche, bensì che quelle strutture fossero marginalizzate e ignorate.

 Dabashi fa riferimento al libro Orientalism del 1978 del defunto professore della Columbia University Edward Said, che sottolinea le condiscendenti rappresentazioni occidentali dell’“Est” come una regione comprendente società che sono meno avanzate, meno razionali, e infine, inferiori. Laddove i loro pensieri e successi venivano così spesso considerati come meno validi – applicabili localmente, forse, ma non universali nel modo in cui dovevano essere le strutture eurocentriche – gli intellettuali non occidentali si battevano per discutere con le controparti occidentali sullo stesso piano.

 Ora però si sta dissipando qualsiasi intimidazione possano aver sentito gli intellettuali non occidentali, a fronte degli evidenti difetti delle idee e dei modelli occidentali. L’assalto ai fatti, alla ragione e alla scienza abbracciato da persone come Trump ha ulteriormente compromesso la posizione dell’Occidente. La domanda è se gli intellettuali non occidentali saranno in grado di cogliere questa opportunità per espandere l’influenza delle proprie strutture intellettuali.

 Diffondere la parola

Una sfida importante per gli intellettuali asiatici sarà superata resistendo ai pregiudizi occidentali. Gli editori di lingua inglese tendono ancora a incoraggiare l’analisi degli affari globali da una prospettiva eurocentrica. Ad esempio, sebbene vi siano senza dubbio molti libri eruditi di valore sulla Cina, soprattutto scritti da accademici cinesi – come Yasheng Huang e Minxin Pei – che ora vivono e lavorano in Occidente, troppi sembrano intesi principalmente ad alimentare la sinofobia o a sopravvalutare il rischio di crisi o collasso. Gli intellettuali non occidentali spesso non vengono tradotti nelle lingue europee, anche se la comprensione e l’apprezzamento di insider come Confucio, Mencio e Han Feizi aiuterebbero indubbiamente gli outsider ad affrontare in modo più efficace gli interlocutori cinesi in ambito politico ed economico.

 Data la scarsità di questi studi negli elenchi degli editori occidentali, alcune delle sfide più potenti per il pensiero occidentale sono arrivate dagli indiani che scrivono in inglese. Ne è un esempio il libro del 2012 From the Ruins of Empire dello storico Pankaj Mishra, che ha evidenziato come gli intellettuali asiatici degli inizi del XX secolo come Gandhi, Kang Youwei e Mohamed Abduh fossero costretti a reinterpretare le proprie tradizioni – induiste, confuciane e islamiche, rispettivamente – attraverso una lente occidentale.

 Per espandere la portata delle loro idee, gli intellettuali non occidentali devono provare, mediante argomentazioni attente e convincenti, l’originalità, il valore e l’universalità delle loro prospettive. Potrebbero tentare di farlo nei termini descritti da Mishra, avvalendosi di metodologie eurocentriche. Potrebbero anche respingere interamente quell’approccio, pensando completamente al di fuori della scatola europea. Oppure potrebbero fondere le due modalità, integrando il pensiero eurocentrico con quello euroscettico per arrivare a un quadro di analisi universale e coerente.

 Qualunque approccio scelgano gli intellettuali non occidentali, i sistemi – compresi valori e concetti familiari – che sono da tempo definiti in parte in base a una prospettiva locale dovranno essere adattati in modo tale da essere universalmente comprensibili. Più facile a dirsi che a farsi.

 Il libro del 2011 Being Different: An Indian Challenge to Western Universalism dell’autore indiano Rajiv Malhotra illustra questa sfida. Nessuno può negare che l’India sia diversa dall’Occidente. Ma la pratica di un’anti Tesi o “purva paksha” che secondo Malhotra serve per riconoscere appieno quelle differenze – nonché per sostenere la creazione di un “approccio armonico alla crescita sociale e spirituale” – si può comprendere solo se si capisce e si accetta il concetto di “Dharma” contenuto nelle religioni indiane.

 Per un lettore cinese questa potrebbe non essere una forzatura, dal momento che Dharma presenta alcune analogie con il concetto di “Tao” riconducibile alla tradizionale filosofia cinese. Ma uno scienziato occidentale secolare potrebbe far fatica a capire quelli che sono concetti non facilmente definibili. E anche se lo facessero, potrebbero non voler accettare né Dharma né Tao come basi per un quadro intellettuale utile, dal momento che nessuno dei due è scientificamente provato o verificato a livello empirico.

 Un’altra sfida importante per gli intellettuali non occidentali sarà quella di sintetizzare le loro idee – e nello specifico, gli schemi intellettuali del miracolo economico cinese – in un pacchetto che possa competere con il Washington Consensus. Per come stanno le cose, malgrado il fatto che milioni di cinesi abbiano ricevuto un’istruzione o una formazione occidentale, non esiste alcuna analisi cinese coerente o convincente sui fattori chiave del successo economico della Cina. In assenza di un “Beijing Consensus”, gli analisti occidentali sono nella posizione di liquidare l’esperienza della Cina come idiosincratica, evitando che le sue lezioni siano applicate su vasta scala.

 La sfida futura
Data la combinazione delle barriere concettuali e la resistenza alle strutture poco familiari, convincere l’Occidente che “il resto” abbia qualcosa da offrire non sarà semplice. Al momento, le prove concrete di successo delle politiche potrebbero essere il modo più efficace per corroborare la tesi favorevole al mettere in pratica le prospettive non occidentali. Ecco un esempio: l’adozione in India di un numero di identità digitale unico (chiamato Aadhaar) potrebbe fare più di qualsiasi pubblicazione accademica per supportare la creazione di un’economia più inclusiva.

 Ma nel lungo periodo gli intellettuali non occidentali dovranno tradurre le proprie idee in modelli e teorie testabili. Data la complessità e l’interconnessione dei sistemi esistenti, è probabile che tale lavoro venga svolto non da una singola figura come John Maynard Keynes o Milton Friedman, ma dal lavoro collettivo basato sulla condivisione delle conoscenze. La tradizione cinese di creare “enciclopedie” per qualsiasi dinastia costituirebbe un utile precedente.

 In economia, una maggiore diversità porta a un maggiore successo. Le diverse prospettive che i diversi attori mettono in campo – e persino il disagio che può derivare da quelle differenze – tendono a stimolare l’innovazione. Mentre il mondo tenta di correggere i problemi derivanti dall’approccio occidentale alla crescita e allo sviluppo – problemi come la disuguaglianza economica e la frustrazione sociale – le scoperte incoraggiate dalla diversità sono esattamente ciò che serve. L’Occidente ha detto la sua. Ora tocca agli altri.

Traduzione di Simona Polverino

 

Andrew Sheng è distinguished fellow dell’Asia Global Institute presso l’Università di Hong Kong e membro del Consiglio consultivo dell’UNEP sulla finanza sostenibile.

 

Copyright: Project Syndicate, 2018.
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