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Dossier | N. 57 articoli Mappamondo

Le guerre commerciali degli Usa non sono una novità (ma non per questo promettono bene)

Douglas A. Irwin, Clashing Over Commerce: A History of US Trade Policy, University of Chicago Press, 2017

 Per ottant’anni, a partire dagli anni 30, il presidente degli Stati Uniti, chiunque fosse, è sempre stato un vigoroso promotore del libero scambio. Durante quel periodo, la leadership presidenziale americana ha rivestito un ruolo cruciale nel ridurre le barriere al commercio internazionale, creare regole globali e organizzazioni per il commercio transfrontaliero – soprattutto tra Paesi facenti parte di un crescente ordine commerciale sponsorizzato dagli Usa – ed espandere costantemente il volume e il valore dei beni e servizi in commercio. 

Poi è arrivato Donald Trump, il primo presidente dopo oltre ottant’anni a opporsi all’espansione del commercio. Nel suo primo anno, Trump ha messo fine alla partecipazione degli Stati Uniti al Trans-Pacific Partnership (TPP), un patto commerciale che coinvolge 12 Paesi del Pacifico; ha avviato le procedure per rinegoziare il North American Free Trade Agreement (NAFTA) con Canada e Messico; minacciato di imporre barriere alle importazioni dalla Cina; e in generale ha detto chiaramente di non condividere l’attitudine positiva dei suoi 13 predecessori verso il commercio. Poi il 1 marzo ha annunciato che avrebbe imposto dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio.

 La presidenza di Trump solleva una domanda importante per il futuro economico del mondo: riuscirà Trump a sovvertire – e quindi di fatto sovvertirà – le politiche e gli accordi commerciali degli ultimi ottant’anni, rischiando una costosa riduzione del commercio globale? Alcuni indizi per rispondere a questa domanda emergono nel libro di Douglas A. Irwin, Clashing Over Commerce, una monumentale ricostruzione storica della politica commerciale Usa dall’era coloniale ad oggi.

Il libro di Irwin vanta numerose virtù. È esaustivo, il prodotto di un’eroica impresa di ricerca – di fonti primarie e secondarie – e sintesi. Ben scritto, aspetto di particolare valore se si considera l’argomento talvolta asciutto spalmato su 603 pagine di testo più 124 pagine di note e bibliografia, il tutto stampato con un corpo non particolarmente grande.

Il libro beneficia anche del fatto che l’autore, che insegna al Dartmouth College, sia un economista professionista. Come tale, non solo ha le competenze per analizzare le cause politiche delle varie politiche commerciali dell’America, ma anche per soppesare gli effetti economici di quelle politiche. E giunge alla conclusione che le politiche commerciali Usa solitamente siano state meno benefiche di quanto asserito dai loro fautori, ma anche meno dannose di quanto sostenuto dai loro detrattori.

 Infine, Irwin fornisce un quadro storico semplice ma convincente, dividendo 250 anni in tre periodi distinti. Nel primo periodo, dall’era coloniale alla fine della Guerra Civile nel 1865, l’obiettivo principale della politica commerciale Usa era di produrre gettito per il governo federale tramite i dazi sulle importazioni. Nel secondo periodo, dall’era della Ricostruzione alla Grande Depressione, scopo primario della politica commerciale era di limitare le importazioni. E nel terzo periodo, che inizia con la Depressione e si estende fino al presente, gli Usa hanno generalmente tentato di espandere il commercio con la reciprocità: rimuovendo le barriere sulle importazioni in cambio di misure simili da parte dei partner commerciali dell’America.

 Quello che emerge dall’approccio di Irwin è che in ogni periodo, il conflitto politico sul commercio è un elemento ricorrente Che sia nel passato o durante la presidente di Trump, è americano come la torta di mele.

 Dazi o tasse 

Durante il primo periodo di Irwin, gli Usa si affidavano ai dazi per reperire i fondi necessari a mandare avanti il governo federale, perché praticamente non avevano altre fonti di gettito. La quantità di denaro implicata era modesta per gli standard contemporanei, dato che il governo era decisamente più esiguo di oggi. Il commercio aveva comunque un impatto considerevole sulla storia iniziale del Paese Gli abitanti delle colonie americane e degli stati Usa infanti dipendevano dall’Europa per molti prodotti di base. Anche a fronte della crescita del nuovo Paese e della sua crescente auto-sufficienza, le questioni commerciali assumevano un significato politico e si annoverano tra le cause delle sue due prime guerre

 Dopo la vittoria della Gran Bretagna sulla Francia nella Guerra dei Sette Anni del 1756-1763, i costi a carico del governo britannico per proteggere le sue colonie in Nord America lievitarono. Il governo decise che i coloni avrebbero dovuto, con un aumento della pressione fiscale, farsi carico di parte del peso per proteggersi. Gli americani si opposero, con un assalto alle navi da tè nel porto di Boston, un episodio passato alla storia come il “Boston Tea Party” Alla fine, la resistenza si trasformò in ribellione armata, scatenando la Rivoluzione americana.

 All’inizio del XIX secolo, come parte della guerra con la France napoleonica, la Gran Bretagna iniziò a interferire con le spedizioni di navi dei paesi neutrali, compreso il catturare marinai sulle navi americane e costringerli a prestare servizio nella British Royal Navy. Per protestare contro questa pratica, il presidente Thomas Jefferson impose un embargo su tutto il commercio Usa con Gran Bretagna e Francia. Ma l’embargo di Jefferson causò decisamente più danni agli Stati Uniti che alla Gran Bretagna. Poi, durante l’amministrazione del successore di Jefferson, James Madison, il Congresso – di nuovo per protestare contro le ostili pratiche marittime britanniche – dichiarò guerra alla Gran Bretagna. Le questioni correlate al commercio scatenarono la Guerra del 1812.

 Splendido isolamento

 Nei primi anni della repubblica, uno schema inconfondibile di politica commerciale domestica Usa emerse da quella che Irwin definisce la “geografia economica” del Paese. Diverse regioni si sono specializzate in diversi settori economici, e queste specialità si riflettevano nell’approccio che i rappresentanti al Congresso assumevano nei confronti del commercio. Ad esempio, gli interessi commerciali dominavano il New England, che faceva i conti con la concorrenza da parte dell’Europa, soprattutto della Gran Bretagna. I rappresentanti eletti del New England erano quindi favorevolmente inclini a proteggere le imprese della regione con i dati sulle importazioni.

 Nel Sud, invece, fioriva l’agricoltura. Poiché gli agricoltori e i coltivatori del Sud trovarono i mercati per le loro colture all’estero importandone molte dall’Europa, si opposero ai dazi protezionisti. La regione del Medio Atlantico, nel frattempo, aveva sviluppato un’economia più mista, quindi i rappresentanti al Congresso non votarono in blocco a favore o contro i dazi. E poiché la geografia economica cambia lentamente, questo schema generale è durato fino al XX secolo.

 Durante il primo periodo di Irwin, emerse una nuova questione nella politica del commercio, una questione che da allora mantiene un ruolo centrale nel dibattito commerciale. I fautori delle misure protezionistiche sostenevano che queste fossero necessarie non solo per finanziare il governo, ma anche per servire gli interessi economici più ampi del paese. Oltre alle barriere tariffarie, a loro avviso, “i settori infanti” avrebbero potuto crescere fino a quando non fossero stati abbastanza forti da competere con le aziende più stabili all’estero, così generando ricchezza e posti di lavoro per gli americani. I detrattori del protezionismo, dal canto loro, controbattevano asserendo che i dazi non facevano altro che trasmettere benefici non acquisiti e ingiusti ad alcuni americani a spese di altri, che erano costretti a pagare un prezzo più caro per i prodotti tutelati.

 Nella prima metà del XIX secolo, la questione dei dazi divideva gli Usa politicamente in Nord e Sud, così come accadeva per la relativa questione sulla schiavitù, da cui i coltivatori del Sud dipendevano per coltivare il cotone che esportavano. Inizialmente il Sud aveva il sopravvento, laddove prevalevano le sue preferenze per i dazi bassi e il mantenimento della schiavitù. La Guerra Civile, però, cambiò l’equilibrio regionale del potere politico negli Usa – e con esso, della politica commerciale.

 Ricostruire la politica commerciale

 Il Nord conquistò e occupò il Sud, e abolì la schiavitù. Il Partito Repubblicano, guidato dal presidente Abraham Lincoln, aveva presieduto alla vittoria dell’Unione e avrebbe dominato la scena politica americana nei successivi settant’anni. I legislatori repubblicani rappresentavano il Nordest e il Midwest, dove era concentrata la base industriale americana, e istituirono una politica commerciale protezionistica che durò fino agli anni 30. Anche il presidente Theodore Roosevelt, repubblicano ma senza alcuna simpatia per l’ortodossia economica in altre materie, nel 1902 dichiarò che, «Il Paese ha tollerato la saggezza del principio dei dazi protezionistici. È estremamente inopportuno che questo sistema venga distrutto o che vi siano violenti e radicali cambiamenti».

 Arroccata dietro elevate barriere tariffarie durante gli ultimi tre decenni del XIX secolo, l’economia Usa crebbe rapidamente. Fu il protezionismo a contribuire a questa impressionante performance? I campioni di quella politica certamente asserivano di sì. Ma Irwin – il cui libro del 1996, Against the Tide, traccia la storia dell’idea del libero scambio e l’opposizione ad esso – mostra il contrario. L’analisi economica retrospettiva, secondo Irwin, non rileva che il protezionismo fosse alla base della forte crescita economica dell’America nel XIX secolo, che era invece in gran parte riconducibile all’espansione della forza lavoro, dovuta all’immigrazione, e alla crescente produttività come risultato di importanti innovazioni come l’elettrificazione

 Durante questa seconda era della politica commerciale Usa, il Congresso accettò e il presidente firmò una serie di leggi che imponevano dazi su un vasto numero di prodotti di importazione. Una delle più note oggi è la Smoot-Hawley Tariff Act del 1930. La Smoot-Hawley deve la sua fama storica, o forse la sua notorietà, alla Grande Depressione, la peggiore recessione economica della storia americana, con cui è coincisa, e per la quale finì per diventarne in parte responsabile.

 Anche qui Irwin trova che il nesso tra la politica commerciale e la performance economica generale sia meno potente di quanto avrebbe previsto la tradizionale saggezza storica. La Smoot-Hawley certamente non aiutò gli Usa o l’economia globale negli anni 30 Ma Irwin, seguendo altri storici dell’economia, crede che la Depressione fosse riconducibile soprattutto alle errate politiche monetarie, che erano aggravate dalla necessità di seguire le regole deflazionistiche del sistema monetario internazionale del giorno: il gold standard.

 E se da un lato la Depressione stessa non fu causata dalla politica commerciale Usa, dall’altro sortì un potente effetto sulla successiva politica commerciale americana, scatenando un nuovo ordinamento politico che ribaltò l’impegno settantennale preso dal governo rispetto all’aumento dei dazi.

 Un nuovo accordo commerciale

 Durante la sua presidenza dal 1933 al 1945, Franklin D. Roosevelt forgiò una coalizione democratica che controllò le leve fondamentali della politica Usa per buona parte di quattro decenni. I democratici smantellarono parte della barriera tariffaria eretta dai repubblicani attorno all’economia americana. Il Reciprocal Trade Agreement Act (RTAA), attuato nel 1934 e successivamente rinnovato più volte, segnò una rivoluzione nella politica commerciale Usa, e quindi inaugurò la terza era principale della storia di Irwin.

 L’accordo RTAA spostò il potere decisionale sui dazi dal Congresso, dove alcuni singoli settori erano delle lobby favorevoli al protezionismo, al presidente, su cui le forze protezionistiche avevano meno influenza, perché i presidenti sono eletti dall’intero paese Roosevelt ricevette l’autorità di abbassare i dazi unilateralmente, e così fece Poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il meccanismo di libero scambio passò dal comando presidenziale a una serie di negoziati tra più nazioni, il cui tema era la reciprocità: gli Usa e gli altri Paesi partecipanti accettavano di abbassare le barriere commerciali a patto che lo facessero anche gli altri.

 La liberalizzazione commerciale guadagnò favore politico dalla ripresa post-Depressione, essa stessa in parte prodotta dalla mobilitazione del Paese per la guerra e dalla prosperità dei primi decenni postbellici – in Europa e in Giappone come negli Usa. La Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e il movimento comunista internazionale, che iniziarono dopo la Seconda Guerra Mondiale, incentivarono ulteriormente l’espansione del commercio transfrontaliero. L’idea era che il commercio avrebbe fortificato le economie dell’Europa occidentale, che a loro volta, avrebbero aiutato i governi a opporsi alle azioni sovversive dei comunisti locali. Il commercio tra i loro membri avrebbe anche solidificato la coalizione guidata dagli Usa contro l’Unione Sovietica.

 Il sentimento protezionistico non scomparve del tutto negli Usa nei quattro decenni successivi alla Depressione, ma fu molto più debole ed aveva un impatto politico meno incisivo rispetto all’era successiva alla Guerra Civile. Tornò alla ribalta anche negli anni 70, periodo in cui la ripresa delle economie europee e giapponesi aveva generato il tipo di concorrenza che mancava alle industrie Usa subito dopo il 1945. Inoltre, negli anni 70, l’elevato tasso di inflazione scatenò un rialzo dei tassi di interesse, che aumentò il valore del dollaro, penalizzando gli esportatori Usa e i settori concorrenti di import.

 Negli anni 70 e 80, il governo Usa rispondeva a questi eventi con misure atte a proteggere le industrie nazionali, in parte convincendo altri Paesi ad adottare restrizioni volontarie sull’export. La maggiore panacea per gli esportatori Usa e le aziende concorrenti di import, però, fu l’abrogazione unilaterale dell’amministrazione Nixon del sistema monetario internazionale di Bretton Woods nel 1971, che rese possibile la svalutazione del dollaro.

 Gli Usa non ritornarono mai più al protezionismo radicale dell’era successiva alla Guerra Civile, e negli anni 90 la pressione di erigere barriere commerciali si attenuò Il paese maggiormente responsabile per aver generato quella pressione, il Giappone, cadde in una profonda recessione economica, riducendo la minaccia rappresentata dai suoi esportatori per le industrie Usa. Inoltre, l’economia Usa registrava una robusta crescita, che servì da antidoto per la pressione protezionistica. Gli anni 90 sono stati un’epoca aurea per il libero scambio. La Cina e gli ex Paesi comunisti dell’Europa aderirono all’ordine commerciale globale centrato sugli Usa, e gli Usa negoziarono il NAFTA e contribuirono a istituire la World Trade Organization.

 Trump avrà la meglio sulla tradizione americana?

 Nella prima decade del nuovo millennio ricomparve nuovamente l’impeto politico a limitare il commercio. Le esportazioni cinesi colpivano duramente alcuni settori Usa, e la crisi finanziaria del 2008 e la successiva “Grande Recessione” resero il protezionismo nuovamente allettante. Ancora una volta, però, la ritirata dal libero scambio si rivelò essere modesta: restò in vigore il verdetto degli anni 30 a favore della reciprocità invece che delle restrizioni. Questo porta la storia di Irwin al presente – e alla questione relativa alla possibilità che Trump presieda un’altra rivoluzione nella politica commerciale Usa, facendo ancora del protezionismo la sua massima espressione.

Alcune delle condizioni che hanno trasformato in passato la politica commerciale nazionale sembrano essere presenti ancora oggi, almeno in parte. Gli Usa si ritrovano nel mezzo di una turbolenza economica, a causa dell’esplosiva crescita del commercio globale e degli investimenti, insieme ai rapidi progressi compiuti sul fronte delle tecnologie di informazione e comunicazione Tali sviluppi hanno creato incertezza, insicurezza e perdite economiche per alcuni, e conseguenti richieste di intervento politico a tutela di chi è stato colpito negativamente.

 Anche la seconda decade del XXI secolo ha portato un cambiamento politico, che è alla base delle due grandi inversioni di rotta nella storia americana sul fronte della politica commerciale Trump non faceva parte dell’establishment politico quando entrato nel Partito Repubblicano e ha catturato la presidenza. E negli ultimi quarant’anni la geografia economica del Paese è cambiata. I democratici, che rappresentano i lavoratori i cui posti di lavoro sono minacciati dalla concorrenza estera, sono diventati il partito del protezionismo, mentre i repubblicani sono finiti a difendere la reciprocità e l’espansione del commercio. Se Trump convince un numero sufficiente di repubblicani a passare alla causa protezionistica, una generale politica di restrizione del commercio potrebbe godere di una sorta di maggioranza nazionale come accaduto dopo la Guerra Civile.

 Il momento attuale, però, fornisce ragioni ancora più forti per credere che la politica commerciale Usa continui sulla rotta del post-New Deal – apertura basata sulla reciprocità. Per un motivo, i settori Usa non sono più nitidamente divisi tra sostenitori e oppositori del protezionismo. Molte aziende importano ed esportano allo stesso tempo. Devono fare i conti con la concorrenza estera, ma affidarsi anche alle catene di fornitura delle multinazionali per i componenti dei prodotti che realizzano. Quindi non sono favorevoli a un imbavagliamento del commercio.

 Inoltre, neanche il maggiore partito politico è compatto sul fronte del commercio. I maggiori repubblicani eletti continuano a essere favorevoli al commercio internazionale, anche se il leader titolare non lo è affatto. I repubblicani al Congresso hanno criticato duramente l’annuncio di Trump sui dazi, e il principale quotidiano conservatore del Paese, The Wall Street Journal, l’ha definito «il più grande abbaglio della sua presidenza». Per quanto riguarda i democratici, quelli che rappresentano gli stati a est tendono a impegnarsi maggiormente per limitare le importazioni rispetto alle controparti dell’ovest.

 Inoltre, i settori da cui dipendono entrambi i partiti per i contributi per la campagna elettorale fanno affari all’estero e sono quindi ostili al protezionismo. Mentre le grandi multinazionali sono generose con i repubblicani, i democratici si affidano alle società finanziarie, alle aziende high-tech e all’industria dell’entertainment, che partecipano tutte attivamente ai mercati internazionali e si opporranno a una brusca inversione di rotta verso un regime di limitazione degli scambi commerciali.

 Infine, come dimostra la straordinaria indagine storica di Irwin, bruschi sconvolgimenti di questo tipo sono rari, ad eccezione degli unici due eventi registrati negli ultimi 250 anni. Secondo Irwin, la disputa politica sul commercio si verifica regolarmente negli Usa, ma quasi sempre in uno scenario di stabilità. La storia della politica commerciale, continua Irwin, può essere descritta come “stabilità malgrado il conflitto”. Prendendo in prestito il linguaggio delle previsioni metereologiche, allora, potremmo dire che la politica commerciale Usa andrà inevitabilmente incontro a delle tempeste nei prossimi anni; ma, anche con un Trump convinto dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, un uragano devastante, che possa modificare il panorama, sembra alquanto improbabile.

Michael Mandelbaum è professore emerito di politica estera americana alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies e autore di Mission Failure: America and the World in the Post-Cold War Era.

Copyright: Project Syndicate, 2018

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