
Dopo lo scandalo dei braccialetti di Amazon è la volta di quello dei profili di Facebook. Qualche settimana fa il colosso di Seattle ha suscitato un vespaio di polemiche per aver brevettato braccialetti che, grazie all’emissione d’impulsi ultrasonici, consentono di aumentare la produttività dei dipendenti ma anche di controllarne i movimenti.
La reazione, soprattutto in Europa, è stata violenta: si è arrivati a parlare di «caporalato digitale» e «ritorno al taylorismo».
In questi giorni, un’inchiesta del New York Times e del Guardian ha dimostrato come i dati di decine di milioni di profili Facebook siano stati illecitamente utilizzati da alcune società per fini elettorali. Forse influenzando le ultime elezioni presidenziali Usa e il referendum su Brexit. Il titolo del gruppo di Menlo Park è crollato in Borsa.
I due casi hanno sfumature diverse ma toccano entrambi il tema della privacy. Quella di Amazon è soprattutto una questione di rapporto tra datore di lavoro e lavoratore e di trade-off tra produttività e privacy. Quella di Facebook di accesso e gestione di dati personali.
Tuttavia, alla doverosa riflessione sulle conseguenze che con sempre maggiore frequenza la tecnologia ha sulla privacy – di lavoratori, clienti, elettori – non può non aggiungersene una – più macroeconomica, ma con evidenti conseguenze sociali – sulla sfida che certi poli tecnologici possono portare alla libera concorrenza.
Sia privacy che libera concorrenza rischiano infatti di essere limitate dalla crescita eccessiva delle cosiddette Over-the-top (Ott). Le Ott sono imprese che, attraverso la rete internet, vendono prodotti (Amazon, Alibaba), contenuti e servizi (Netflix, Apple con AppleTV e iTunes) o spazi pubblicitari (Google, Facebook, Twitter). Si rivolgono a un mercato globale, ma con costi e organici ridotti, anche perché non avendo una propria infrastruttura non sostengono oneri di trasmissione e di gestione della rete. Ciò si traduce in tassi di crescita e margini molto elevati. In pochi anni startup innovative sono diventate grandi multinazionali, con la capacità finanziaria di acquisire i principali concorrenti, posizioni dominanti in diversi settori e accesso a enormi quantità di dati personali. La gestione dei quali può consentire di aumentare ulteriormente, ed esponenzialmente, il proprio vantaggio competitivo.
I casi di Amazon e Facebook non sono gli unici, ma sono emblematici.
Con un giro d’affari di quasi 180 miliardi di dollari e una capitalizzazione di oltre 700, l’azienda di Jeff Bezos fa praticamente di tutto. E con grande successo. Vende qualsiasi prodotto al dettaglio, è un’azienda di logistica e trasporti per la consegna di ciò che vende, è il più grande fornitore di servizi cloud, è una media company che produce e distribuisce contenuti. E detiene una quantità formidabile di dati e preferenze dei consumatori.
Anche la creatura di Mark Zuckerberg, con oltre 40 miliardi di dollari di fatturato e 500 di capitalizzazione, ha raggiunto dimensioni enormi. Il fiume di cassa generato dalla raccolta pubblicitaria ha consentito l’acquisizione di moltissime società leader nel proprio segmento - tra cui Instagram, WhatsApp, Shazam, FriendFeed, Face.com - ponendo il gruppo al centro delle comunicazioni e interazioni sociali via voce, testo e immagine. E raggiungendo i 2 miliardi di profili.
Gli scandali dei braccialetti Amazon e dei profili Facebook sollevano temi di tutela del lavoro, etica e privacy. Che è giusto affrontare. Senza tuttavia sottovalutare che tecnologia e globalizzazione hanno consentito ad alcuni gruppi di raggiungere posizioni dominanti in diversi settori. Ciò potrebbe porre problemi di tutela non solo della privacy ma anche della libera concorrenza.
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