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gender pay gap

Salari: il divario «inspiegabile» tra gli uomini e le donne in Italia

«Mi ha sorpreso molto vedere che John McEnroe guadagna almeno 150mila sterline (è nella fascia 150.000 – 199.999 dei compensi della Bbc), mentre il mio compenso è stato di circa 15mila sterline. A meno che John non faccia tante altre cose per la Bbc al di fuori di Wimbledon, lui guadagna almeno dieci volte più di me». Martina Navratilova – 18 titoli del Grande Slam contro i 7 di McEnroe (senza contare i doppi dove il distacco è ancora maggiore) – lo ha espresso in modo chiaro proprio ai microfoni della stessa Bbc, sottolineando anche: «Magari per le donne che lavorano full-time la differenza non è così marcata, ma se la cosa va avanti per tutta la vita la differenza diventa importante». Perché il vero problema non è la fotografia in un dato momento della vita professionale, ma il dato aggregato dei guadagni di un’intera carriera.

Uno studio di qualche anno fa aveva evidenziato come una differenza di salario all’ingresso nel mondo del lavoro di 5mila euro lordi annui fra due colleghi, a favore dell’uomo, in assenza di promozioni o aumenti ad personam, era destinata a crescere a oltre 14mila euro, assumendo come ipotesi un aumento di entrambi gli stipendi del 3% annuo. Forse non scandalizza né la differenza di 5mila euro a inizio carriera, né quella di 14mila a fine carriera, ma certo fa riflettere la somma delle differenze salariali anno per anno che al momento della pensione danno una cifra di 316mila euro. Vale a dire la possibilità o meno, ad esempio, di comprarsi una casa.

Altra questione, poi, è la reale valutazione delle differenze salariali. Da sempre l’Italia appare virtuosa rispetto agli altri Paesi, perché dalle statistiche risulta abitualmente un gap di salario complessivo (non spacchettato per livelli di inquadramento) fra uomini e donne molto contenuto. Si prenda, ad esempio, l’ultimo studio della piattaforma tedesca per carriere in ambito tecnologico Honeypot, secondo la quale il Gender pay gap italiano si aggira attorno al 5,5%. Niente se confrontato al 19% del Regno Unito, al 18% circa degli Stati Uniti, al 15,8% della Francia e al 15% della Spagna, solo per fare alcuni esempi. Ma c’è un però.

Partiamo dalla definizione del dato per capire come viene composto: il Gender pay gap è, nella definizione di Eurostat, la differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne espressi in percentuale del salario maschile. Si tratta di un indicatore denominato «grezzo» o «non aggiustato» o «non rettificato», specifica la professoressa Luisa Rosti dell’università di Pavia (si veda articolo accanto) che sottolinea come sia composto da una parte “spiegabile” e una “non spiegabile”. Perché grezzo? Perché la differenza nella retribuzione media oraria rappresenta solo una parte della disparità di retribuzione complessiva tra uomini e donne. Se considerassimo la retribuzione media annua invece della retribuzione media oraria, il differenziale si allargherebbe per il minor numero di ore lavorate della componente femminile. E il differenziale si allarga in misura anche maggiore se consideriamo il basso tasso di occupazione delle donne in Italia.

Non solo: in Italia la componente “spiegabile” della differenza salariale (attribuibile a caratteristiche produttive, come titolo di studio) mostra un segno negativo (-6% circa), a significare che le donne che lavorano possiedono mediamente caratteristiche produttive migliori di quelle maschili, ma la componente discriminatoria (11% circa) annulla questo vantaggio portando, come si è visto, il livello del gender pay gap grezzo al 5,3%, come calcolato da Eurostat.

Torniamo a guardare i numeri: nel 2016 la differenza in busta paga fra uomini e donne era del 16,2% nell’Unione europea e solo del 5,3% in Italia. Ma alla luce di quanto detto l’indicatore non può essere significativo, proprio per questo Eurostat ha sviluppato un indicatore, denominato Gender overall earnings gap, che misura l’impatto di tre fattori tra loro combinati (guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione) sul reddito medio di uomini e donne in età lavorativa. Nel 2014, il valore osservato del Gender overall earnings gap era del 39,6% nell’Unione europea e del 43,7% in Italia. Questo forse restituisce un quadro più corretto della disparità nel mondo del lavoro fra uomini e donne nel nostro Paese.

Esistono, come si è detto, delle peculiarità tutte italiane nella composizione di questo indicatore. Se, infatti, nell’Unione europea la disparità di retribuzione complessiva è determinata principalmente dal Gender pay gap, cioè dalla differenza di retribuzione per ora lavorata (37,4%), a cui segue, con un contributo della differenza nel tasso di occupazione (32,2%) e della differenza nel numero di ore lavorate (30,4%), in Italia i pesi sono diversi: il divario di genere nei tassi di occupazione rappresenta di gran lunga il principale contributo alla disparità di retribuzione complessiva (56,3%), seguito dal divario di genere nelle ore retribuite (32,7%) e dal Gender pay gap (11%).

In soldoni, la differenza salariale italiana non è poi così irrisoria come certe statistiche potrebbero far sembrare. Tanto più che, pur essendoci una legge che obbliga le società private e pubbliche con oltre 100 dipendenti a comunicare i dati delle remunerazioni aziendali con spaccato di genere (articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198), non si ha contezza dei dati forniti. Al contrario di quanto sta avvenendo nel Regno Unito: le aziende con oltre 250 dipendenti stanno comunicando i dati sui salari e così si scopre che in gruppi bancari come Goldman Sachs e Hsbc il gap supera il 50%, mentre il record è del gruppo tessile Rectelia dove si raggiunge l’88 per cento. Oltremanica più di tre aziende su quattro hanno una busta paga più pesante per i dipendenti uomini rispetto alle colleghe in 17 diversi settori e nove donne su dieci lavorano in imprese che pagano i colleghi più di loro, secondo quanto riportato dal Financial Times.

Ma se nei Paesi anglosassoni il tema è particolarmente sentito, dalla Silicon Valley (nel tech Usa le donne guadagnano il 11,86% in meno dei colleghi) alla City, in Italia il problema non sembra essere all’ordine del giorno. Una raccolta più puntuale e “pubblica”, come nel Regno Unito, dei dati potrebbe certamente aiutare a elevare il livello di consapevolezza. Inoltre si potrebbe agire attraverso indicazioni in questa direzione del codice di autodisciplina della Borsa Italiana, in modo che le società quotate diventino un benchmark per le aziende italiane come già lo sono per la presenza di donne dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali dall’entrata in vigore della Legge Golfo-Mosca nel 2012.

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