Dopo un lungo confronto con Regioni ed enti locali, la Funzione pubblica ha elaborato il testo definitivo delle Linee guida sui nuovi concorsi pubblici e sulla pianificazione dei fabbisogni di personale. Si tratta di due passaggi chiave per attuare il Testo unico del pubblico impiego ripensato dalla riforma Madia.
Si tratta di linee di indirizzo che nel superare la dotazione organica pongono finalmente l’attenzione su aspetti qualitativi importanti come i profili professionali, storicamente sacrificati dalle amministrazioni sull’altare delle istanze sindacali o, peggio, del consociativismo politico clientelare.
Un’occasione, speriamo, per cambiare sostanzialmente la Pa già dal reclutamento, nell’ambito di una politica di investimento in capitale umano e non come mera procedura amministrativa. Certamente, l’applicabilità delle istruzioni sulle procedure concorsuali solo alle amministrazioni centrali dello Stato, da un lato, e la mancanza di procedure che favoriscano le sinergie e la gestione associata delle procedure concorsuali, dall’altro, limitano l’impatto delle Linee di indirizzo (come spiegato sul Sole 24 Ore di venerdì scorso). Sapranno le tante amministrazioni italiane del territorio aggiornare i propri regolamenti per i concorsi? Sapranno cogliere gli aspetti innovativi? Le amministrazioni andrebbero guidate con un’azione di accompagnamento e di incentivi, che manca in un approccio meramente giuridico delle riforme. Le Linee di indirizzo riaprono un grande tema. La Pa deve guardare solo agli aspetti formali del reclutamento (imparzialità e tetti di spesa) oppure deve interessarsi a reclutare e a valorizzare i migliori, perché da questi dipende la qualità dei servizi?
Più volte è stato denunciato che la Pa è un pessimo datore di lavoro. La cattiva performance si registra già dal reclutamento con rari concorsi, volti a verificare conoscenze formali, tardivi e lunghi. Negli ultimi anni ormai gran parte delle nuove assunzioni a tempo indeterminato è stata costituita da stabilizzazioni di personale precario. Ciò porta a selezionare non sempre i migliori, con il giusto spirito e l’adeguata motivazione. Assumere personale che per anni è stato “maltrattato” non porta a reclutare dipendenti motivati ed entusiasti, ma persone che con il datore di lavoro hanno avuto non di rado contenzioso. Il contrario di ogni sana regola di buon recruitment e di engagement.
I sistemi di inquadramento contrattuali non aiutano ad attrarre il personale più qualificato e motivato, perché dovendo collocare i nuovi ingressi nella posizione economica iniziale dell’area o categoria, il giovane con competenze elevate e specialistiche (si pensi al settore ricerca o sanità o per i profili tecnici) sarà più orientato a scegliere altro. Inoltre, una modalità di ingresso precario, spesso al limite del rispetto delle norme, trasmette valori e principi non positivi nel capitale umano che si assume. Il giovane insegnante, il giovane medico, il giovane ricercatore, per anni precario, una volta assunto a tempo indeterminato comincerà a guardare ad altro. Quanta produttività e quanta innovazione, quindi, si perdono? Le stesse carriere interne, piatte e fondate su meccanismi formali e su criteri di anzianità più che di merito, sono il peggio che un datore di lavoro possa offrire per valorizzare il proprio capitale umano e coinvolgerlo nei processi. Non solo, quindi, non attraiamo i migliori, ma li reclutiamo male e li demotiviamo subito con politiche retributive e di carriera disincentivanti.
Per anni la Pa, specie in alcune aree del Paese, ha svolto la funzione di ammortizzatore sociale nei confronti della disoccupazione giovanile, costituendo una scelta di ripiego rispetto allo spettro della disoccupazione di lungo periodo.
Ci si è occupati del reclutamento solo dal punto di vista legislativo, e pure male, senza valutare aspetti sui quali il settore privato riflette da decenni. Gli stessi progetti Ocse, dagli anni ’90, si sono prodigati a emanare linee guida, papers e altro per sottolineare l’importanza di «how retain and recruit best human capital» nella Pa, ma senza trovare ascolto nei Governi italiani. Il problema non è stato solo il blocco delle assunzioni. La questione non è solo «quanti assumere» e «quali competenze assumere», ma anche «come assumere». Inoltre, se il settore pubblico è un cattivo esempio, anche il datore di lavoro privato non sarà stimolato, soprattutto in settori in concorrenza con il pubblico come la scuola o la sanità. In quest’ultimo ambito, soprattutto per alcune specializzazioni di avanguardia e rare, l’abuso delle partite Iva o co.co.co. porta a perdere talenti sia verso il privato sia verso l’estero, con una perdita di competenze grave e irreparabile. Ci sono settori della Pa in cui il cattivo reclutamento e la cattiva gestione delle risorse umane distruggono definitivamente servizi pubblici essenziali e vitali. In altri, come i centri per l’impiego, i servizi non sono mai decollati.
L’imparzialità, la prevenzione della corruzione e il rispetto dei tetti di spesa sono importanti ma non esauriscono (anzi) il tema del reclutamento del personale. Un piano di assistenza e supporto, utilizzando le tante risorse (oltre 800 milioni) del Fondo sociale europeo sul Pon Governance e capacità istituzionale, aiuterebbe le Pa, soprattutto quelle più piccole, ad andare oltre il rispetto delle regole di base.
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