I recenti attacchi missilistici di Stati Uniti, Regno Unito e Francia contro le basi militari siriane in risposta al presunto impiego di armi chimiche da parte del governo nella città di Douma, controllata dai ribelli, hanno riproposto la domanda sull’accettabilità dell’uso della forza contro uno stato sovrano. I contesti variano. Alcuni Paesi possono usare la forza per scatenare una guerra difensiva, esercitare la “responsabilità di proteggere” dai genocidi e altri crimini contro l’umanità, o impedire l’acquisizione o l’impiego di armi di distruzione di massa. Ma la domanda è sempre la stessa: quand’è giusto combattere?
Ci saranno sempre delle parti interessate o dei giuristi internazionali pronti a contestare singoli casi. Eppure, tra i policymaker e i loro consiglieri, c’è più consenso a livello internazionale sull’uso appropriato della forza di quanto non sembri. Analizzare la portata e i limiti di tale consenso può aiutare a inquadrare meglio sia l’attuale dibattito sulla Siria che eventuali dibattiti futuri.
Almeno dall’epoca del controverso intervento militare della Nato in Kosovo nel 1999 – in cui la forza alleata bombardò Belgrado, la capitale serba, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – c’è ampio accordo a livello internazionale su tre punti. Il primo è che esiste una differenza tra legalità e legittimità. L’uso della forza può essere legittimo senza essere tecnicamente legale, e può essere tecnicamente legale senza essere percepito dal mondo come legittimo.
Il secondo punto è che la legalità è determinata dalla conformità alle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, e nient’altro. Il terzo punto, infine, è che esistono criteri prudenziali di legittimità generalmente riconosciuti che sono
perlopiù accettati a livello informale, sebbene non siano stati codificati da trattati internazionali, disposizioni della
Carta dell’Onu, o risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu o del Consiglio di Sicurezza.
Definire la legalità
Per quel che concerne la legalità, la Carta delle Nazioni Unite specifica che l’impiego della forza militare nel territorio
di uno stato sovrano senza il consenso di quest’ultimo è ammesso solo in presenza di almeno una delle due condizioni seguenti.
La prima è la legittima difesa, come sancito nel Capitolo VII, articolo 51, la seconda è l’approvazione del Consiglio di Sicurezza,
come sancito nel Capitolo VII e nel Capitolo VIII (per i casi che riguardano l’uso della forza da parte di organizzazioni
regionali).
Nel caso della legittima difesa, ovvero dell’autodifesa, si discute da tempo se l’Articolo 51 consenta l’uso della forza anche quando l’attacco da parte di un altro Paese non sia ancora avvenuto, ma sia solo temuto o minacciato. Nella misura in cui esiste un consenso tra giuristi internazionali sulla cosiddetta “autodifesa anticipata”, l’uso della forza è considerato ammissibile quando sussistono prove schiaccianti di un attacco imminente, a patto che la risposta sia proporzionata. La lingua inglese consente una netta distinzione, che sembra non esistere nella maggior parte delle altre lingue, tra agire “preemptively”, cioè in modo precauzionale o difensivo, che è ammissibile, e agire “preventively”, cioè preventivamente, che invece non lo è.
Laddove il criterio di legittima difesa non sia applicabile, la legalità di un intervento militare dipende dall’approvazione del Consiglio di Sicurezza, su cui ciascuno dei suoi cinque membri permanenti, ovvero Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina, può mettere il veto. In tal caso, il diritto di veto può e spesso viene esercitato per ragioni palesemente egoistiche, come ha dimostrato la Russia nel caso della Siria.
Di fronte a questa frustrazione, si è più volte tentato di sostenere, in particolare da parte di giuristi governativi statunitensi e britannici, che esiste un’altra fonte di diritto oltre alla Carta dell’Onu. Secondo quest’ottica, il diritto internazionale consuetudinario prevede interventi militari intrapresi in risposta ad atrocità di massa minacciate o effettive, specialmente se prevedono l’uso di armi nucleari, chimiche o biologiche.
Ma queste argomentazioni non possono reggere senza un consenso significativo a livello internazionale. In ultima analisi, se si vuole una giustificazione giuridica all’azione militare, bisogna trovarla nella Carta dell’Onu.
Cinque criteri di diritto morale
Lasciando da parte da legalità, su quali principi si basa la legittimità dell’uso della forza militare? Sebbene non siano mai stati formalizzati né dall’Onu né da altri organismi, cinque criteri di valutazione prudenziale si sono andati affermando a livello internazionale negli ultimi vent’anni. Formulati per la prima volta nel 2001 all’interno del rapporto della Commissione internazionale sull’intervento e la sovranità statale intitolato La responsabilità di proteggere, questi criteri hanno trovato ulteriore riscontro nel rapporto redatto dal Gruppo ad alto livello sulle minacce, le sfide e il cambiamento, nominato dal Segretario Generale dell’Onu, subito prima del vertice per il 60mo anniversario delle Nazioni Unite nel 2005. Oggi è ampiamente, se non universalmente, accettato che il ricorso alla forza militare deve superare queste cinque “prove” per essere considerato moralmente e politicamente legittimo.
La prima prova riguarda la serietà della minaccia. Il danno minacciato nei confronti di uno Stato o della human security, la sicurezza degli individui, è di natura tale, e sufficientemente evidente e serio, da giustificare prima facie l’uso della forza?
In secondo luogo, c’è la prova dello scopo appropriato. È chiaro che lo scopo principale dell’azione militare proposta sia fermare o evitare la minaccia in questione, a prescindere dall’eventuale presenza di altri scopi o motivi?
La terza è la prova dell’uso della forza come ultima risorsa. Sono state considerate tutte le opzioni non militari per contrastare la minaccia in questione, ed esistono prove sufficienti per concludere che misure inferiori non avrebbero successo?
A questa fa seguito la prova della proporzionalità dei mezzi. L’entità, la durata e l’intensità dell’azione militare proposta corrispondono al minimo necessario richiesto per far fronte alla minaccia in questione?
Infine, c’è la prova del bilancio delle conseguenze, che è probabilmente la più importante di tutte. C’è una discreta probabilità che l’azione militare riesca a contrastare la minaccia in questione e che le sue conseguenze non saranno peggiori delle conseguenze del non intervento? In altre parole, un’azione militare farebbe più male che bene?
Una delle principali attrattive di questi criteri è che non sono in alcun modo legati a concetti culturali o religiosi. Anche se vi si coglie un’evidente parentela con la teoria cristiana della “guerra giusta”, risalente all’inizio del Medioevo, essi si riallacciano, senza alcuna incoerenza, ad altre importanti tradizioni intellettuali e religiose del mondo, come l’Islam, l’ebraismo, l’induismo e il buddismo. Di fatto, il Mahabharata, il grande poema epico di tradizione indù, scritto secoli prima della nascita di Cristo, offre uno dei primi spunti di riflessione sul concetto di “guerra giusta”.
La speranza è che, col tempo, questi criteri verranno applicati in maniera sempre più sistematica dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e altri policymaker incaricati di prendere decisioni in merito all’uso della forza. Certo è che, molto prima dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, varie amministrazioni americane si sono opposte a restrizioni anche informali al loro diritto divino di fare il bello e il cattivo tempo sul palcoscenico mondiale. Ma se tutte le parti coinvolte in una simile decisione s’impegnassero coscienziosamente a valutare ogni singolo criterio basandosi su argomentazioni circostanziate e suffragate da prove, allora sarebbe plausibile aspettarsi un consenso nei casi che giustificano la scelta d’intervenire.
Dalle parole all’(in)azione
I suddetti criteri di legittimità ci aiutano anche ad analizzare interventi del passato che ancora oggi risultano controversi.
Ad esempio, l’intervento del 2011 in Libia, guidato dalla Nato, in cui il colonnello Muammar Gheddafi venne inseguito fino
alla morte, sollevò importanti interrogativi sulla proporzionalità: probabilmente, la forza utilizzata nel perseguimento di
un cambio di regime fu superiore a quella che sarebbe stata necessaria per raggiungere l’obiettivo primario di proteggere
i civili dalle atrocità.
Al contrario, la decisione assai criticata di non intervenire militarmente nel Darfur nel 2003-2004 venne ampiamente giustificata facendo riferimento al bilancio delle conseguenze. Il conflitto che ne sarebbe derivato avrebbe reso impossibile, a livello logistico, garantire gli aiuti umanitari internazionali a oltre due milioni di sfollati; e il fragile accordo di pace tra Nord e Sud, che a stento continua a reggere dopo vent’anni di scontri sanguinosi, sarebbe diventato lettera morta.
Lo stesso criterio ci aiuta a comprendere perché potrebbe essere giusto intervenire militarmente in risposta ai crimini contro l’umanità perpetrati in Sierra Leone o Costa d’Avorio, ma non in Russia o Cina, a prescindere da quanto siano stati nefasti i comportamenti di questi due governi in Cecenia e nelle regioni del Tibet e dello Xinjiang. Un intervento contro una grande potenza significherebbe una guerra su vasta scala, con conseguenze in termini di vittime e impoverimento di gran lunga più devastanti di quelle che il ricorso alla forza riuscirebbe a evitare.
Non si tratta di applicare due pesi e due misure, bensì di fare un bilancio realistico dei danni. Durante lo scoppio delle violenze a Timor Est nel 1999, ad esempio, un’azione militare nei confronti del governo indonesiano sarebbe stata del tutto impensabile. L’intervento poté concretizzarsi soltanto dopo che il governo indonesiano, su pressione della comunità internazionale, acconsentì a una missione di peacekeeping esterna con un forte mandato esecutivo.
Facendo un ultimo esempio, i criteri di legittimità ci aiutano anche a spiegare perché fu giusto invadere l’Iraq nel 1991, ma non nel 2003, e che sarebbe stato così anche qualora la seconda guerra avesse soddisfatto tutti i criteri di legalità, cosa che ovviamente non avvenne. Nella prima Guerra del Golfo, tutti i protagonisti erano allineati, sia giuridicamente che moralmente, a favore dell’intervento militare. Sul piano legale, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu una chiara violazione della Carta dell’Onu, e universalmente ritenuta tale dai membri del Consiglio di Sicurezza.
Quanto alla legittimità, l’impiego della forza che ne derivò, per quanto brutale, fu chiaramente motivato da uno scopo appropriato, ovvero la necessità, dal momento che la diplomazia aveva fallito nel garantire l’abbandono del Kuwait da parte dell’Iraq. L’azione fu proporzionata nella sua attuazione, non ultimo perché le truppe di intervento evitarono di marciare su Baghdad, una volta completata la ritirata dal Kuwait. E, in termini di bilancio delle conseguenze, l’intervento non causò più danni di quanti ne evitò.
Imperativi contrastanti
Poiché continuano a verificarsi casi in cui un’azione militare tecnicamente legale viene percepita come illegittima, è opportuno chiedersi cosa succede quando legalità e legittimità entrano in conflitto. Prendiamo l’intervento della Nato in Libia nel 2011. Inizialmente, l’azione congiunta di Usa, Regno Unito e Francia aveva ricevuto l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Man mano che le operazioni militari andarono avanti, però, le potenze coinvolte persero il sostegno internazionale poiché si ebbe la percezione di un cambio di obiettivo dell’intervento, dalla protezione dei civili al rovesciamento del regime.
Questi casi non sollevano problemi concettualmente complessi, ma possono avere conseguenze politiche catastrofiche. Per effetto della controversia sulla Libia, il consenso in seno al Consiglio di Sicurezza venne meno proprio mentre si stava sviluppando una situazione simile in Siria, dove le forze di Assad uccidevano persone che manifestavano pacificamente.
Eppure, spesso il conflitto tra legalità e legittimità va nella direzione opposta, e un’azione ritenuta conforme ai criteri di legittimità non ottiene l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza a causa di un veto espresso o minacciato. Ne sono un esempio l’intervento della Nato in Kosovo nel 1999 e, probabilmente, i recenti attacchi contro la Siria. Molti direbbero che, in questi casi, la legittimità ha surclassato la legalità, ma così facendo pongono un difficile dilemma a quelli di noi che credono fermamente in un ordine internazionale fondato sulle regole.
Tale dilemma non è di semplice soluzione. Tuttavia, ho capito che il modo più persuasivo e credibile di affrontare il problema di un’azione militare che sia moralmente convincente pur in assenza di un’autorizzazione giuridica formale è quello di concepirla come una sorta di “appello alla clemenza” presso un tribunale penale.
Si tratta del tipo di difesa che un guidatore sorpreso a passare con il rosso mentre la moglie incinta sta per avere un bambino sul sedile posteriore dell’auto pronuncerebbe in tribunale: «Riconosciamo di aver violato la lettera della legge, ma non ne stiamo mettendo in discussione l’applicabilità. E non diventerà un’abitudine. È solo che in questa particolare circostanza siamo stati moralmente obbligati ad agire così, pertanto qualunque condanna dovrebbe tenere conto di ciò». In tal modo, egli chiederebbe che la sentenza riflettesse tali circostanze attenuanti.
Perché un’argomentazione del genere possa reggere in una particolare situazione internazionale, la motivazione morale dev’essere molto persuasiva. Nel caso del presunto attacco chimico a Douma, gli attacchi missilistici statunitensi, britannici e francesi erano probabilmente giustificati dall’orrore suscitato dai metodi indiscriminati del regime di Bashar al-Assad. Non sembrava esserci nessun altro modo per modificare il comportamento del regime, e la proporzionalità calibrata della risposta non ha innescato una guerra ancora più vasta e terribile, come molti avevano temuto.
Tuttavia, sarebbe stato più saggio aspettare di aver raccolto prove inequivocabili a conferma della colpevolezza di Assad. L’incapacità degli alleati occidentali di scegliere questa via fa sì che il loro appello al tribunale dell’opinione pubblica sia molto più debole di quanto non sarebbe stato altrimenti.
Traduzione di Federica Frasca
Gareth Evans, ex ministro degli esteri australiano e presidente emerito dell’International Crisis Group, è stato co-presidente
della Commissione internazionale sull’intervento e la sovranità statale, e attualmente è presidente del Global Centre for
the Responsibility to Protect e rettore dell’Australian National University. Il suo ultimo libro s’intitola Incorrigible Optimist: A Political Memoir.
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