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Scenari

Tre rivoluzioni e un funerale (ovvero, perché la storia del pensiero economico è affascinante)

Stoccolma, 10 dicembre 2017, l’economista statunitense Richard H. Thaler (Sx) riceve da re Carl Gustaf XVI  di Svezia il Premio Nobel (Afp)
Stoccolma, 10 dicembre 2017, l’economista statunitense Richard H. Thaler (Sx) riceve da re Carl Gustaf XVI di Svezia il Premio Nobel (Afp)

Quella del 20 novembre 2011 era una giornata uggiosa a Cambridge, Massachusetts. Nell’aria qualcosa di strano; stava per accadere qualcosa, si sentiva. Anche Greg Mankiw, professore di economia e autore del libro di testo più famoso e diffuso al mondo, lo sapeva; per cui quando un gruppo di ragazzi, durante la sua lezione, si alzò e abbandonò rumorosamente l’aula, non si sorprese troppo. Infastidito, non sorpreso. Quei ragazzi, figli dell’élite conservatrice americana, studenti del più prestigioso dipartimento di economia del pianeta, una retta da 70 mila dollari l’anno, stavano protestando contro il suo modo di fare lezione, contro l’economia che lui insegnava, colpevole, a loro dire, di offrire una visione politicamente distorta della disciplina, e una «discussione inadeguata dei principi della teoria economica che offre sostegno ad un movimento che sta trasformando il concetto stesso di ingiustizia economica», come gli scrissero in una lettera aperta.

La crisi economica rappresentava la sconfitta più bruciante di una economia ideologica, non basata sui fatti e insegnata in maniera acritica. Quegli studenti, e i molti altri che a loro si sono uniti in un movimento di protesta internazionale, volevano di più; non la pretesa avalutatività di una scienza esatta, ma il dibattito, il pluralismo delle idee, i limiti e soprattutto la storia di quelle idee, da dove vengono e dove vanno. Ecco la grande assente nell’insegnamento dell’economia degli ultimi anni, dagli Stati Uniti all’Europa, la storia del pensiero economico in maniera miope e stolta è stata espunta dalla maggior parte dei percorsi formativi dei futuri economisti, manager, dipendenti pubblici. Ma senza la storia non c’è consapevolezza, non ci sono radici e la pianta della conoscenza, quando esposta alle avversità, è fragile.

Eppure la storia del pensiero economico racconta una vicenda affascinante, un intreccio di personaggi, di scoperte, di cambiamenti epocali, di rivoluzioni vere e proprie. Fare una selezione dei protagonisti più importanti di questa vicenda è impossibile, lo sa bene Joseph Schumpeter che nella sua monumentale Storia dell’analisi economica (1954), fece precedere alla storia vera e propria, ben quattro capitoli metodologici e di inquadramento generale, per giustificare le sue scelte, la sua selezione e i suoi orientamenti. Ma certo è possibile distillarne le idee, metterne in luce la genesi e l’impatto, le relazioni con le altre idee e le implicazioni pratiche. Questo è certamente un esercizio fecondo e quanto mai utile, anche nella formazione delle nuove generazioni.

Solo per stare agli anni recenti, dalla seconda metà del secolo scorso, l’economia ha vissuto diverse “rivoluzioni”, cambiamenti radicali di paradigma o quanto meno di prospettiva, e almeno un “funerale”, la radicale messa in discussione con conseguente “estinzione” di una certa idea di agente economico.
Ma andiamo per ordine. La teoria dell’equilibrio economico generale, che sfocerà nella dimostrazione dell’esistenza di un insieme di prezzi in corrispondenza dei quali tutte le imprese massimizzano i loro profitti e tutti i consumatori massimizzano le loro utilità, contemporaneamente. Due geniali economisti matematici, Kenneth Arrow e Gerard Debreu, riuscirono a dimostrare nel 1954 che una tale situazione esiste ed è l’esito che si ottiene in un sistema di concorrenza perfetta nella quale, in ogni mercato, di ogni possibile bene prodotto e scambiato, la domanda eguaglia l’offerta. La prova di Arrow e Debreu rappresenta il pinnacolo più alto di una cattedrale intellettuale progettata molti decenni prima da Leon Walras e Vilfredo Pareto, ma anche probabilmente, il punto di maggiore distanza concettuale tra la teoria economica e la realtà che essa voleva modellare. La teoria dell’equilibrio economico generale è infatti, dal punto di vista formale, così astratta e complessa, da essere più assimilabile alla matematica pura che non alla scienza sociale della produzione e distribuzione della ricchezza. Eppure non di meno, la sua rilevanza pratica è stata immensa.

Tra gli sviluppi legati alla teoria si devono menzionare due teoremi, il primo e secondo teorema fondamentale dell’economia del benessere. Questi teoremi, dimostrati in varie forme dagli stessi Arrow e Debreu e da alcuni altri economisti matematici, sono tanto semplici quanto radicali nelle loro conclusioni. Il primo afferma che un mercato in concorrenza perfetta produce un’allocazione efficiente delle risorse, un “ottimo Paretiano”. Una situazione, cioè, nella quale non è possibile far aumentare il benessere di qualcuno senza ridurre, contemporaneamente, quello di qualcun altro. Il secondo teorema dice che se siamo di fronte a un’allocazione efficiente delle risorse, questa dev’essere l’esito del funzionamento di un mercato concorrenziale. Il combinato disposto dei due teoremi rappresenta dunque la legittimazione più forte, netta e rigorosa dell’ideologia del laissez-faire. Se vuoi massimizzare il benessere di una società fai funzionare il mercato, liberalo da ogni condizionamento esterno, da ogni laccio e lacciuolo, da ogni forma di regolamentazione, che potrebbe interferire con il meccanismo dei prezzi. Mentre il programma di ricerca intorno all’equilibrio economico generale si è oggi praticamente esaurito, le implicazioni “politiche” dei suoi risultati principali sono ancora qui, a suscitare dibattito, a orientare governi e a condizionare i destini di milioni di persone.

La seconda rivoluzione ha avuto luogo pressappoco negli stessi anni in cui Arrow e Debreu lavoravano alla loro dimostrazione di esistenza. Anch’essa ha a che fare con il concetto di equilibrio anche se parte da presupposti del tutto differenti. A guidare tale rivoluzione fu soprattutto un uomo, John Nash, che perfezionò ed estese i risultati di John von Neumann e Oskar Morgenstern, trasformando la teoria dei giochi, nella grammatica delle interazioni sociali. Siamo a metà del ’900 e fino ad allora l’economia si era occupata di relazioni di mercato, relazioni nelle quali le imprese e i consumatori sono considerati così tanti e così piccoli da non essere in grado di influenzare unilateralmente i prezzi. Questo quadro ignorava un elemento fondamentale di tutte e dinamiche economiche e sociali più in generale, e cioè l’interdipendenza. Le mie scelte, nella realtà, influenzano le tue, dalle quali a loro volta sono influenzate. Le conseguenze delle mie azioni dipendono non solo da cosa io decido di fare, ma anche da cosa decidono di fare tutti gli altri decisori, imprese, consumatori, stati, decidono di fare. La teoria economica non era all’epoca in grado neanche di descrivere tale interdipendenza, figuriamoci comprenderla a fondo. Serviva un nuovo linguaggio, nacque così la teoria dei giochi al centro del quale si staglia come una vetta altissima il risultato di Nash. Egli riuscì a dimostrare, infatti, che per ogni possibile situazione strategica, per quanto grande il numero di soggetti coinvolti, per quanto ampio l’insieme delle scelte a loro disposizione, esiste sempre un “equilibrio”, una combinazione di mosse in corrispondenza delle quali ogni soggetto massimizza la sua utilità, dato che tutti gli altri stanno massimizzando, contemporaneamente, la loro. Questo risultato, all’apparenza così semplice apre un mondo agli economisti che possono ora occuparsi di problemi fino a loro trascurati a causa della presenza dell’interdipendenza. Prima di tutto i mercati oligopolistici, poi lo studio dei conflitti, quello delle aste, il commercio internazionale assume una nuova luce, l’interazione tra le politiche pubbliche e la reazione del settore privato e molti altri, fino ai recenti mercati reputazionali su cui si fondano i colossi dell’e-commerce, come Amazon, eBay, Uber, Alibaba e molti altri.

Questo ci porta dritti alla terza rivoluzione, la cosiddetta rivoluzione dell’informazione, portata avanti a partire dagli anni ’70 da personaggi come George Akerlof, Joseph Stiglitz e Michael Spence. Anche qua c’è alla base una semplice constatazione. Non sempre chi compra e chi vende possiede le stesse informazioni sulla qualità del bene oggetto di scambio. Pensiamo a un’auto usata, al cibo che acquistiamo al supermercato, alla pulizia della cucina del ristorante dove abbiamo prenotato la cena, ai materiali di costruzione della casa che stiamo per acquistare, ma anche alle caratteristiche dei progetti imprenditoriali che le banche vorrebbero finanziare o alle qualità del nuovo collaboratore che vorremmo assumere. Il risultato radicale al quale si arriva analizzando queste situazioni è che ogni qualvolta l’informazione è distribuita in maniera asimmetrica i mercati diventano inefficienti fino a collassare del tutto. Termini come “selezione avversa” e “azzardo morale” sono praticamente diventati di uso comune. Quando durante la crisi dei mutui subprime, il Tesoro americano decise di lasciar fallire Lehman Brothers si giustificò sostenendo che un altro salvataggio avrebbe rinforzato l’azzardo morale già ampiamente diffuso nel settore bancario, l’utilizzo, cioè dei soldi dei risparmiatori, per attività di trading proprietario, ad alto rischio, reso possibile dall’asimmetria informativa, dall’impossibilità, cioè, da parte dei risparmiatori di controllare l’utilizzo che la banca fa dei loro soldi. L’economia dell’informazione ci spiega perché il bene di maggior valore di ogni impresa sia oggi la sua reputazione, perché laurearsi in una buona università ci apre l’accesso ai lavori meglio pagati, perché è importante che i cibi che mangiamo siano tracciabili; ma ci insegna anche a progettare contratti efficienti, sistemi di remunerazione efficaci, ci aiuta a proteggerci dalle frodi e dai comportamenti opportunistici; ha invaso, forse anche troppo, con il suo lessico e i suoi concetti il mondo del lavoro e delle organizzazioni, per non parlare della politica.

Arriviamo così al “funerale”. Nel 2017 il Nobel per l’economia viene assegnato a Richard Thaler per i suoi contributi all’economia comportamentale, i cui risultati segnano definitivamente, come sostiene un altro Nobel, Daniel McFadden, l’estinzione del “Chicago man”, il proverbiale homo economicus, razionale, individualista e autointeressato, che da decenni popola i modelli economici. Si apre così ora uno scenario in cui si comincia seriamente a prendere in considerazione le scelte reali, quelle che avvengono nel mondo reale, in condizioni reali. Siamo limitati, tendiamo a procrastinare, abbiamo problemi di autocontrollo, sia soggetti a emozioni e impulsi, i più vari. Ci piace donare, reciprocare e non sopportiamo di essere trattati o che gli altri vengano trattai ingiustamente. La disuguaglianza attiva nel nostro cervello un vero e proprio senso di disgusto. Lo sappiamo perché i neuroeconomisti hanno da qualche tempo iniziato a scrutare i nostri cervelli in azione. L’economia che verrà sarà così, complessa e più realistica. Speriamo anche più utile a prevenire i disastri del passato. Certo studiarne la storia e l’evoluzione ci aiuta già da oggi ad apprezzarne il fascino e la bellezza.

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