Le politiche commerciali incentrate sull’America del presidente Donald Trump hanno dato adito a un periodo di rappresaglie protezionistiche a livello globale che rischiano di minare il sistema commerciale internazionale. Su questo sfondo di tensioni crescenti, che vede protagonisti gli Stati Uniti, la Cina, l’Unione europea e altre economie importanti, l’Africa sembrerebbe uno spettatore passivo. L’apparenza, però, può ingannare.
In occasione di una conferenza tenutasi il 21 marzo scorso a Kigali, in Ruanda, 44 Paesi africani hanno compiuto un importante passo verso la creazione di un vasto mercato unico che promette di rafforzare le economie dell’intero continente. Con la firma dell’accordo di libero scambio CFTA (African Continental Free Trade Area), i leader africani hanno dimostrato la volontà di impegnarsi per una modernizzazione all’interno del sistema regolamentato degli scambi internazionali postbellici.
Alcuni commentatori hanno subito espresso un giudizio sull’accordo utilizzando discorsi triti e ritriti sull’Africa e una serie di argomentazioni inflazionate sul perché un’area di libero scambio non potrà mai funzionare. Dal cilindro hanno tirato fuori i “soliti sospetti”, vale a dire infrastrutture inadeguate, bassi livelli di industrializzazione, fallimenti nell’attuazione di accordi precedenti, costi elevati e corruzione endemica.
Sicuramente, non aiuta il fatto che la Nigeria e il Sudafrica – le economie più grandi del continente – non abbiano ancora aderito al CFTA. Se non altro, però, né il presidente nigeriano Muhammadu Buhari né quello sudafricano Cyril Ramaphosa si sono affrettati, in stile Trump, a condannare l’accordo prima di conoscerne i dettagli. In quanto potenze leader del continente, i due Paesi posso permettersi di aspettare il momento giusto prima di impegnarsi in maniera formale.
Altri esperti di Africa hanno sottolineato il potenziale del CFTA nel rafforzare l’impegno attuale volto a sviluppare le infrastrutture, promuovere l’industrializzazione e migliorare il contesto normativo e imprenditoriale del continente. Dal canto mio, mi schiero decisamente con loro. A prescindere, però, dalla posizione personale sul CFTA, un dibattito sul ruolo del commercio interno all’Africa – una strategia di sviluppo cruciale, ma spesso trascurata, per il continente – è assolutamente ben accetto.
A favore del CFTA
Il CFTA potrebbe essere descritto come una componente necessaria ma insufficiente dell’agenda di sviluppo dell’Africa. L’Africa ha bisogno di programmi più rigorosi a livello continentale, regionale e nazionale per migliorare le infrastrutture e promuovere lo sviluppo industriale, agricolo e tecnologico, come delineato dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite per il 2030. Con o senza l’accordo, i Paesi africani devono aumentare la digitalizzazione, creare sistemi per la gestione delle informazioni commerciali e l’analisi di mercato, modernizzare e semplificare le procedure doganali e attuare altre misure per favorire gli scambi.
Tuttavia, la necessità di uno spazio per il commercio panafricano è chiara. Consideriamo un dato sorprendente: i costi nascosti associati alla corruzione e ai blocchi stradali, nonché quelli relativi ai ritardi ai valichi di frontiera, rappresentano il 90% dei costi di trasporto totali del continente, mentre quelli della spedizione effettiva delle merci e assicurativi sono solo l’1%. Inoltre, l’Africa è suddivisa in varie economie nazionali, la maggior parte delle quali ospita aziende di dimensioni ridotte, numericamente più scarse e meno sofisticate rispetto ad altre parti del mondo. Il suo livello di sviluppo tecnologico è più arretrato di quello di molte altre regioni, ed essa risente della penuria di informazioni di mercato e di risorse creditizie. Infine, una quota significativa del commercio intraregionale non compare nelle statistiche, data l’esistenza di un vasto settore informale.
Tutto questo aiuta a spiegare perché, nel 2016, il commercio tra i Paesi africani rispetto al volume totale degli scambi commerciali del continente ammontava ad appena il 21,2%. La quota corrispondente, nel caso dell’Unione europea, è pari al 61,7%, quella degli stati membri dell’Accordo nordamericano di libero scambio è del 50,3%, mentre per l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico è del 24,3%. In verità, la quota degli scambi intracontinentali rispetto al commercio totale ora è più elevata rispetto a quella di altre regioni in via di sviluppo come il Mercosur (13,6%) in America Latina e la CARICOM (9,7%) nei Paesi caraibici. Ma questo è dovuto perlopiù all’esistenza dello spazio tripartito di libero scambio COMESA-EAC-SADC, che rappresenta il 72% del commercio della regione e abbraccia gran parte della metà orientale del continente, dall’Egitto a nord al Sudafrica a sud. A tale proposito, l’Africa stessa è il principale mercato dell’export della regione tripartita.
Primi passi
Ora che l’euforia suscitata dalla conferenza di marzo sta scemando, per i negoziatori dei Paesi firmatari è giunto il momento di occuparsi del lavoro ancora in sospeso. La sfida principale è garantire che il CFTA si realizzi pienamente e dia i suoi frutti. Creare un regime commerciale efficiente tra così tanti Paesi richiede tatto, lungimiranza e una solida capacità gestionale da parte di tutti gli attori coinvolti.
Il prossimo luglio, i capi di stato africani si riuniranno in Mali per adottare una serie di allegati al documento che definiscono le condizioni per il commercio di beni e servizi. Stabilire tali norme e standard di riferimento è una priorità importante per la realizzazione dell’accordo, ma non sarà un’impresa facile, se consideriamo l’opera di lima che sarà necessaria a livello legale per armonizzare le varie normative in vigore nel continente.
Gli allegati riguardano tutto ciò che va dalle norme del Paese d’origine alla cooperazione doganale, fino all’agevolazione degli scambi commerciali, alle barriere non tariffarie, agli standard tecnico-sanitari, al commercio di transito, ai mezzi di tutela in ambito commerciale e alla programmazione delle concessioni tariffarie. In aggiunta, ci sono tre brevi appendici che illustrano le procedure operative delle commissioni per la risoluzione delle controversie, l’esame tecnico a cura degli esperti e un codice di condotta per arbitri e membri di commissione.
Qualora gli esperti legali non riescano a chiarire tutti i dettagli alle prossime riunioni, toccherà ai ministri della giustizia e ai procuratori generali africani (che si incontreranno separatamente a giugno) accollarsi il gravoso compito di portare a termine il processo. A tal fine, essi dovranno evitare di soffermarsi troppo su dettagli e cavilli che in genere fanno impantanare gli incontri tra due avvocati – figuriamoci tra dozzine di giuristi provenienti da 55 Paesi. L’approccio dovrebbe essere quello di un giudice che valuta gli interessi concorrenti, anziché di un avvocato che ne rappresenta soltanto una parte.
Oltre alle regole commerciali, i funzionari africani dovranno anche negoziare l’apertura dei rispettivi settori dei servizi nazionali e i dettagli di un mercato integrato dei servizi. Da questi colloqui dovrebbero scaturire quadri normativi e programmi per consentire ai Paesi di rispettare impegni specifici. Si tratta di un’area cruciale in quanto settori come i trasporti, la logistica, il turismo, la comunicazione, l’energia, la finanza e i servizi “business-to-business” rappresentano in media più della metà della produzione nazionale dei Paesi africani. Questi settori favoriranno gli scambi intra-africani e aiuteranno il continente a usufruire dei benefici della globalizzazione più in generale.
Un’altra questione collegata riguarda i dazi sulle merci. Il CFTA prevede la liberalizzazione delle tariffe sul 90% dei prodotti nell’arco di 5-10 anni, con la quota dei prodotti esclusi e sensibili pari a circa 600. Ogni Paese o unione doganale dovrà produrre un programma di concessioni tariffarie che rifletta l’osservanza del piano di liberalizzazione.
Tempi stretti
Il programma delle concessioni tariffarie e dei servizi dovrà essere presentato entro il vertice dell’Unione africana che si terrà nel gennaio 2019, e a cui mancano ormai poco più di sei mesi. Non è molto tempo, considerato che, in questo tipo di negoziati, si tende a contare i fagioli. Mentre i funzionari commerciali dei vari Paesi si stanno preparando per i colloqui bilaterali, gli appelli per una formula semplice che preveda la riduzione generale delle tariffe restano inascoltati.
Il risultato è che, probabilmente, per rispettare le scadenze serviranno azioni politiche ad alto livello. I leader nazionali dovranno guidare i rispettivi ministeri e intervenire laddove necessario per risolvere i problemi più ostinati. D’altro canto, esperti e policymaker dovranno mantenersi concentrati sull’analisi delle implicazioni dei prodotti esclusi e sensibili per gli scambi intraregionali e le catene di valore, così che governi e industrie possano adeguarsi di conseguenza.
Un’altra priorità immediata è persuadere 22 Paesi a ratificare il CFTA in modo che possa entrare in vigore prima della fine del 2018. Ghana, Kenya e Ruanda hanno ratificato l’accordo entro due mesi dalla sottoscrizione, e Ghana e Kenya hanno depositato gli strumenti di ratifica il 10 maggio scorso. Tuttavia, è difficile dire quando potrebbero arrivare le prossime 19 ratifiche. Per accelerare il processo, la commissione dell’Unione africana dovrebbe inviare degli emissari per aiutare i leader nazionali a ottenere la ratifica dai rispettivi governi o legislature.
Un’ultima priorità di primaria importanza è avviare la seconda fase dei negoziati, che sarà incentrata su investimenti, politiche di concorrenza e proprietà intellettuale. Tali colloqui dovranno essere completati, e i relativi protocolli sottoposti all’approvazione finale, entro il vertice dell’Unione africana previsto per il gennaio 2020. Gli insegnamenti tratti dalla prima fase dovrebbero tornare utili nella seconda, a patto che vengano recepiti.
A tale scopo, i negoziatori dovranno basarsi sulle comunità economiche regionali esistenti, al tempo stesso attingendo alle migliori pratiche adottate nel resto del mondo. Ad esempio, le regioni COMESA ed EAC vantano già istituzioni e regimi di concorrenza, che possono fungere da modello per il CFTA. E il Sudafrica possiede già delle linee guida utili per gli investitori, che abbracciano gli obiettivi di sviluppo e sostenibilità del continente.
Inoltre, il metodo di affidare ad alcuni capi di stato il ruolo di promotori di programmi continentali specifici si è già rivelato molto efficace nel mobilitare la volontà politica e le competenze tecniche. Il presidente ruandese Paul Kagame ha guidato gli sforzi per riformare l’Unione africana, mentre il presidente nigeriano Mahamadou Issoufou è stato tra i promotori del progetto CFTA sin dall’inizio. Ora, ruoli simili potrebbero essere assegnati a livello particolare per favorire il processo di formalizzazione dei singoli allegati.
Snellire il processo
Per fortuna, all’Unione africana non mancano le capacità strategiche e organizzative. In occasione di un incontro particolarmente difficile, due giornate improduttive hanno spinto gli esperti che partecipavano a introdurre nuove regole procedurali. D’ora in poi, la durata degli interventi su questioni specifiche, che non possono essere più di cinque, sarà di due minuti, e le dichiarazioni a sostegno saranno bandite. Se le nuove proposte non dovessero raggiungere subito un consenso, la discussione tornerà a concentrarsi sul testo esistente, e le proposte in discussione saranno inserite nell’ordine del giorno di riunioni future. In quell’occasione, queste semplici misure hanno consentito al presidente di prendere decisioni più concrete, e di trasformare un incontro inconcludente in una riunione di successo.
È facile vedere come questi protocolli potrebbero essere ulteriormente sviluppati per accelerare il processo globale. Nelle riunioni per discutere i dettagli di ciascun allegato, il voto elettronico andrebbe utilizzato per determinare quali provvedimenti sono controversi e quali, invece, possono essere tolti di mezzo facilmente. A quel punto, i delegati potrebbero rimandare le aree critiche ai ministri, garantendo così che tutti gli allegati siamo sottoposti almeno a un riesame tecnico. Le questioni controverse e irrisolte potrebbero, quindi, essere rivisitate successivamente, magari seguendo le istruzioni che arrivano dai governi interessati.
Inoltre, i presidenti dovrebbero limitare il tempo dedicato a ciascuna questione, in base al livello di attenzione che richiede, e considerare l’idea di nominare dei rappresentanti per gestire dibattiti a margine su provvedimenti particolarmente cavillosi. Ciò darebbe alle delegazioni che hanno opinioni assai nette su alcune questioni l’opportunità di tenere dei colloqui informali nei fine settimana o durante le pause, e di avere più chance di giungere a una svolta. Il commissario per gli affari commerciali dell’Unione africana potrebbe anche intervenire durante questi colloqui, se non altro per ricordare ai delegati l’importanza politica di raggiungere un consenso in vista delle scadenze impellenti che li attendono.
Le riunioni per discutere gli allegati dovrebbero, inoltre, prevedere una certa flessibilità a livello del presidente. I membri della delegazione dovrebbero sostituirlo per concedergli una pausa durante sedute particolarmente estenuanti. Una soluzione persino migliore potrebbe essere quella di esercitare la presidenza a turno. L’avvicendarsi di personalità diverse aiuterebbe a scongiurare la monotonia, garantendo al tempo stesso un equilibrio rappresentativo tra le regioni.
Più in generale, il processo trarrebbe vantaggio da un miglioramento del sistema di presentazione dei punti all’ordine del giorno, e delle modalità di comunicazione tra i delegati e le rispettive capitali. Questo, unitamente a una gestione elettronica della documentazione e alla somministrazione di corsi per far familiarizzare i partecipanti con le norme procedurali, dovrebbe garantire il completamento dei colloqui entro i termini prefissati.
Verso una nuova Africa
L’agenda di libero scambio dell’Africa ha aperto il 2018 con una nota positiva, ma il tempo stringe e i policymaker dovranno mantenere l’impegno alto e costante se vogliono rispettare alcune scadenze imminenti. Anche se i problemi strutturali resteranno in cima all’agenda di sviluppo, la priorità più urgente è terminare il lavoro di base necessario per rendere il CFTA operativo. Ciò richiederà da parte di tutti i firmatari un atteggiamento reattivo, la disponibilità a scendere a compromessi e una forte determinazione.
Ottenere la ratifica da parte di ciascuno stato membro richiederà una moderata pressione sui governi, così che l’accordo possa entrare in vigore quanto prima. I negoziati della seconda fase potranno essere accelerati attingendo ai modelli globali, regionali e nazionali che si sono dimostrati efficaci già in passato. Infine, il dibattito sugli allegati potrà essere snellito mediante un quadro procedurale più efficiente.
Se tutto questo avverrà, l’Africa compirà un passo gigantesco verso il raggiungimento dell’integrazione economica dell’intero continente. In tal caso, quest’ultimo sarà tutto tranne che uno spettatore nell’economia globale e nella sua governance. Trasformare il progetto del CFTA in realtà è ormai imprescindibile; in caso contrario, come osserva il Bruto shakespeariano nel Giulio Cesare:
“C’è una marea nelle cose umane
che, se colta al flusso, porta alla riuscita,
ma se trascurata, rallenta e addolora
il viaggio della vita”.
Traduzione di Federica Frasca
(*) Francis Mangeni è direttore per gli affari commerciali, doganali e monetari del Mercato comune dell’Africa orientale e meridionale (COMESA).
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