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Come spendere meglio i fondi Ue

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Come spendere meglio i fondi Ue

La strategia italiana sulle politiche di coesione europee post2020 comunicata alla Commissione Ue dal precedente governo e l’eccellente rapporto sui Conti territoriali 2017 evidenziano problemi di grande rilevanza per il Paese.

Il governo Gentiloni ha chiesto di mantenere le risorse della coesione, darle a tutte le Regioni, non condizionarle alle riforme strutturali, garantire la “addizionalità” con i fondi nazionali, semplificare la spesa e limitare i controlli, spostandoli sulla verifica dei risultati da parte delle autorità nazionali. In sintesi, l’Italia ha chiesto all’Europa di lasciare le cose come stanno e limitare la sua presenza nella co-gestione. Il rapporto sui conti economici territoriali 2017, di cui Il Sole 24 Ore ha scritto nelle scorse settimane, evidenzia la continua diminuzione dei fondi nazionali e la difficoltà a spenderli nelle Regioni del Mezzogiorno.

In un contesto europeo con divari di reddito ed occupazione crescenti tra nord e sud Europa e crescenti diseguaglianze tra gruppi sociali, la Commissione europea ha proposto di redistribuire i fondi, riducendoli per i paesi del Nord e dell’Est e aumentandoli per quelli del Sud, compresa l’Italia dove i fondi nazionali sono diminuiti dal 50% all’11% nella scorsa programmazione. Quali cambiamenti sono necessari perché la coesione, con maggiori risorse europee e nazionali, abbia un impatto significativo sulla crescita dell’economia italiana?

Innanzitutto, la politica di coesione manca di una “visione del futuro” e di una strategia sulla quale fare convergere risorse ed energie. E mentre i giovani vanno a cercarsela emigrando e spopolando le aree interne, i fondi nazionali sono spesi senza programmi operativi che stabiliscano impegni cogenti, tempi certi, controlli e valutazioni della spesa. Al contrario, i programmi cofinanziati dalla Ue sono spesi con certezza e più celermente.

I Programmi cofinanziati dalla Ue nel Mezzogiorno, supplendo alla spesa ordinaria, si disperdono in centinaia d’interventi di ordinaria amministrazione o di emergenza, privi sia di impatto “strutturale” che di effetti “congiunturali”, per i tempi amministrativi lunghissimi. In questo modo si mantiene l’esistente anche se non competitivo. Non si aiuta la trasformazione delle imprese e la loro internazionalizzazione. Gli aiuti e qualche sporadica opera pubblica non incidono sulle decisioni d’investimento. Le regioni forti si rivolgono alle reti globali per produrre ed esportare e vedono il Mezzogiorno come un peso che si riflette sulla imposizione fiscale e contributiva piuttosto che una opportunità.

Dunque, una riprogrammazione dei programmi 2014-2020 sarebbe da considerare. Occorrerebbe concentrare la spesa su progetti “strutturali” per costo e per impatto, ridurne drasticamente il numero ed il peso sulla amministrazione e lasciare ai fondi nazionali l’intervento di gestione ordinaria e la pioggia di piccoli aiuti. È necessario, inoltre, semplificare i processi amministrativi, troppo frammentati tra istituzioni e oggetto di mediazioni, accordi, patti, poteri di veto e financo leggi di riforma dello Stato disattese, in un processo in cui sono implicati decine di uffici e che alla fine produce solo un’accozzaglia di interventi, affannosamente messi insieme piuttosto che una strategia.

Che senso ha disporre di più fondi quando solo nella passata programmazione sono stati sottratti 11 miliardi al co-finanziamento nazionale (PAC) e il fondo sviluppo e coesione ha una spesa al 21%, a causa della incapacità di spesa delle amministrazioni del sud e centrali?

Gli operatori nazionali e la Ue invocano riforme strutturali. Da uno studio Ismeri risulta che dal 2012 al 2015 su 42 riforme richieste del Consiglio, 10 riguardano pubblica amministrazione, quattro l’ambiente per le imprese; sette l’accesso all’impiego. Per capire la rilevanza della P.A., il ciclo delle opere pubbliche superiori a 20 milioni di euro dura da 10 a 14 anni! I tempi amministrativi “morti”, “di attraversamento” sono in media il 75% dei tempi necessari a realizzare un’opera. Quindi, solo per le pratiche amministrative si sprecano tra i 7 e i 10 anni.

Con i Piani di rafforzamento amministrativo (PRA) 28 tre regioni e ministeri che gestiscono fondi europei si erano impegnati su tempi e semplificazione. Non sappiamo se i risultati promessi alla fine della fase 1 nel 2017 siano stati raggiunti. Comunque, un richiamo per le amministrazioni che non hanno operato per realizzare riforme di esclusivo interesse dei cittadini a Sud come a Nord è necessaria perché vi sia un impatto non solo sull’attuale programma ma anche sulla credibilità del paese sulla trattativa per il bilancio post2020. Il nuovo governo non potrà evitare la questione.

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