Se si dovesse indicare la figura del sindacalista che meglio ha impersonato lo spirito dell’Autunno Caldo del 1969, non ci sarebbero dubbi che la scelta cadrebbe su Pierre Carniti, scomparso ieri a 81 anni. Nessuno infatti al pari di lui ha raccolto la nuova militanza operaia e sindacale apparsa alla fine degli anni Sessanta per fare di essa per alcuni anni la colonna portante dell’azione sindacale. All’apice dell’influenza sociale e politica dell’organizzazione dei metalmeccanici, Carniti fu uno dei tre segretari che per qualche anno guidarono la Flm, la struttura unitaria della categoria metalmeccanica che nelle intenzioni doveva prefigurare una compiuta unità sindacale, quella che invece non si realizzò mai. Con Bruno Trentin, leader della Fiom-Cgil, e Giorgio Benvenuto, alla testa della Uilm, Carniti guidò la punta di lancia del movimento sindacale nel suo momento più alto, il periodo compreso fra il 1969 e il 1975. Peraltro, in seguito, toccò ancora a lui dirigere la Cisl nell’epoca in cui riapparve la divisione tra le confederazioni dei lavoratori, a causa del celebre Accordo di San Valentino del 1984, che vide la contrapposizione, mai più veramente sanata, tra Cisl e Uil da un parte e Cgil dall’altra.
Carniti fu il più singolare dei nuovi sindacalisti emersi all’interno del mondo cislino. Anche lui, come tanti altri giovani dirigenti, arrivava dall’incontro tra il cattolicesimo sociale e i temi della rappresentanza e della contrattazione che si compiva durante i corsi di formazione tenuti presso la scuola sindacale di Firenze. Ma Carniti impresse una torsione radicale e militante a un approccio che cercava di ibridare i modelli del sindacalismo americano su un ceppo italiano. A favorire questa trasformazione fu la Milano di quel periodo, una vera fucina di cambiamento che spingeva ad affrontare la condizione operaia cogliendo le occasioni di conflitto presenti in un tessuto industriale molto dinamico. La Fim-Cisl milanese con Carniti divenne un’organizzazione che manifestava la propria disponibilità alla protesta operaia e alla lotta, ricercando da un lato momenti unitari con gli altri sindacati e, dall’altro, non temendo di squassare i tradizionali equilibri politici all’interno della confederazione. Inoltre, Carniti proponeva anche un profondo rinnovamento culturale nel modo di fare sindacato, grazie al coinvolgimento attivo di studiosi che l’avrebbero sostenuto nella sua battaglia: fra di loro c’erano notissimi sociologi del lavoro quali Bruno Manghi (il suo referente più assiduo) e gli accademici Guido Baglioni e Gianprimo Cella. Questa miscela di pratica sindacale e di cultura delle relazioni industriali fu essenziale per il successo della nuova Cisl.
Un’altra caratteristica di Carniti fu il suo pragmatismo. Se la sua ascesa pubblica fu legata alla stagione della grande conflittualità, nella maturità fu il segretario generale della Cisl che sottoscrisse gli accordi per depotenziare gli effetti inflazionistici del meccanismo della scala mobile fondata sul punto unico di contingenza, convinto dalla bontà delle idee di Ezio Tarantelli, l’economista ucciso dal terrorismo rosso. A metà degli Ottanta, così, Carniti si trovò in trincea per difendere l’accordo siglato col Governo Craxi dal referendum voluto da Enrico Berlinguer, nonostante la riluttanza di Luciano Lama.
Bastano questi passaggi per mettere in rilievo una personalità sindacale fuori del comune, spesso aspra, guidata sempre dalle proprie forti convinzioni. Carniti appartiene evidentemente a una storia sindacale lontana dal presente, ma che farebbe bene a non dimenticare chiunque voglia comprendere l’Italia contemporanea.
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