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Dossier Perché il populismo non risparmia neppure la ricca Germania

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Dossier | N. 57 articoli Mappamondo

Perché il populismo non risparmia neppure la ricca Germania

  • – di Dalia Marin

Nella testa di molte persone il populismo è associato al trasferimento o alla perdita di posti di lavoro, alla concorrenza delle importazioni e ad altri effetti collaterali della globalizzazione. Come si spiega, allora, la straordinaria performance economica della Germania e la simultanea ascesa del populismo nel Paese? A prima vista, questi due fenomeni sembrano incompatibili, ma il passato – e non necessariamente quello più recente – nasconde le chiavi per comprendere come populismo e prosperità possano coesistere.   

 Negli anni novanta, la Germania era generalmente considerata il “malato d’Europa”. Dopo il crollo dell’Unione sovietica e la riunificazione del Paese, l’economia tedesca era entrata in una fase di stallo, come se la sclerosi dell’ex stato comunista avesse contagiato il sistema economico dell’intera nazione.

Trascorsi due decenni, la Germania è tornata a essere il colosso economico dell’Europa. Tra il 2005 e il 2016 la disoccupazione è scesa da quasi il 13% al 6,1%, e il Paese è ora uno dei maggiori esportatori al mondo, con un volume di scambi stimato intorno all’8% dell’export globale. 

 Sebbene la causa degli scarsi risultati economici del Paese negli anni novanta sia spesso attribuita alla riunificazione, in realtà la Germania deve la sua svolta radicale all’apertura, in quel periodo, dei Paesi dell’Europa centro-orientale (CEE). La ragione di tale cambiamento, secondo il nuovo libro intitolato Explaining Germany’s Exceptional Recovery , di cui sono la curatrice, è che la caduta della cortina di ferro nel 1989, e quella del muro di Berlino in particolare, modificarono profondamente il comportamento delle aziende e dei lavoratori tedeschi. Ed è sempre in quel periodo storico che si possono ritrovare le radici del populismo odierno.   


 L’inattesa manna economica della Germania
Il crollo del comunismo portò nel giro di poco tempo a un’incredibile trasformazione delle relazioni industriali della Germania. Un sistema rigido basato sulla negoziazione salariale a livello nazionale venne sostituito da un sistema decentralizzato e flessibile di contrattazione dei salari, operante a livello delle singole aziende. 

La decentralizzazione della contrattazione salariale fu innescata soprattutto dal proliferare di nuove opportunità legate allo spostamento della produzione verso le economie di mercato emergenti dei paesi Cee. In virtù di quest’alternativa ora sul tavolo, l’equilibrio dei poteri tra i sindacati e le confederazioni dei datori di lavoro mutò, costringendo i sindacati e i comitati d’impresa ad accettare una serie di deroghe agli accordi di settore.      

Non sorprende, dunque, che negli anni successivi i costi unitari del lavoro per le imprese tedesche registrarono un netto calo. Per lungo tempo è stata opinione diffusa che il piano di riforme del mercato del lavoro del 2002 – che prese il nome da Peter Hartz, l’allora presidente della Commissione “Servizi moderni al mercato del lavoro” – avesse rappresentato il punto di svolta nell’inversione di rotta economica della Germania. In realtà, però, il piano Hartz arrivò dieci anni dopo l’inizio della trasformazione delle relazioni industriali e, sostanzialmente, non ebbe alcun ruolo cruciale in essa.      

Un altro fattore chiave della rinascita economica della Germania fu la liberalizzazione degli scambi commerciali con i Paesi ex comunisti appena oltre il suo confine orientale, che sostanzialmente modificò il modello di business degli esportatori tedeschi. In risposta a un aumento della concorrenza, le aziende adottarono uno stile gestionale più decentralizzato e meno gerarchico, e tale cambiamento determinò un miglioramento della qualità complessiva delle esportazioni.  

La nuova struttura organizzativa delle imprese riconosceva il fatto che i lavoratori ai livelli più bassi della gerarchia sono meglio informati sulle preferenze del mercato. Concedendo a questi lavoratori più autonomia nei processi decisionali, le aziende potevano lanciare prodotti che i clienti avrebbero sicuramente apprezzato. Inoltre, migliorando la loro qualità complessiva, il nuovo approccio gestionale contribuì all’espansione dell’export espresso come quota del commercio mondiale.   

La qualità dei prodotti spiega, inoltre, come le esportazioni tedesche siano potute restare competitive anche quando, dopo la crisi finanziaria del 2008, i salari iniziarono a crescere rapidamente. Il settore dell’export registrò una ripresa molto più rapida in Germania che in altri Paesi europei, soprattutto grazie alla crescita della domanda cinese di manufatti tedeschi di alta qualità. Di fatto, dai tempi della crisi a oggi, le esportazioni tedesche verso la Cina sono raddoppiate.   

Un’altra fonte di forza dell’export tedesco deriva dall’espansione, dopo il 1989, delle reti di produzione nei paesi Cee, ricchi di manodopera qualificata. Oltre a nuove opportunità di mercato per le imprese tedesche, la regione Cee offriva un ampio bacino di lavoratori istruiti e a basso costo proprio mentre la Germania lottava per sopperire a una carenza interna di lavoratori specializzati. 

Se la delocalizzazione della produzione ad alta intensità di lavoro verso i Paesi Cee ha determinato l’abbassamento dei costi e messo le imprese tedesche nella condizione di conquistare quote di mercato a livello globale, la liberalizzazione del commercio con la regione ha anche aiutato la Germania ad assorbire lo “shock cinese” molto meglio di quanto non abbiano fatto gli Stati Uniti. In Germania la perdita di posti di lavoro dovuta alla penetrazione delle importazioni in seguito all’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 è stata più che compensata dalla creazione di nuovi posti in settori in cerca di opportunità di esportazione nella regione Cee. E mentre il commercio della Germania con la Cina riguarda prevalentemente gli scambi tra industrie di settori diversi (automobili contro prodotti tessili, ad esempio), quello con i paesi Cee avviene nell’ambito dello stesso settore (Bmw contro Škoda), e all’interno delle stesse multinazionali (automobili contro ricambi per auto).      

 Il risveglio dei fantasmi populisti
Date queste condizioni economiche favorevoli, cosa giustifica il notevole aumento, negli ultimi anni, del sostegno da parte degli elettori tedeschi ai partiti populisti e di estrema destra, come Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania)? Alle elezioni tedesche del settembre scorso, l’AfD è diventato il primo partito di estrema destra a entrare nel Bundestag dai tempi della seconda guerra mondiale; e dopo la formazione di un altro governo di “grande coalizione” tra l’Unione dei cristianodemocratici e cristianosociali e i socialdemocratici, è la maggiore forza d’opposizione in parlamento.   

 Sebbene negli ultimi anni i partiti e i movimenti populisti abbiano notevolmente guadagnato terreno in tutto l’occidente, ciò non è avvenuto sempre per la medesima ragione. Negli Stati Uniti, ad esempio, studi recenti mostrano che la disoccupazione e il basso livello dei salari tra i lavoratori esposti alla concorrenza delle importazioni cinesi hanno giocato un ruolo chiave nella vittoria elettorale del presidente Donald Trump nel 2016. Inoltre, l’aumento delle importazioni dalla Cina è stato persino associato al calo dei matrimoni negli Stati Uniti, registrato negli ultimi decenni.   

 Come abbiamo visto, la concorrenza delle importazioni cinesi non ha avuto un impatto negativo così forte sul mercato del lavoro tedesco. Tuttavia, nel libro Explaining Germany’s Exceptional Recovery, gli economisti Davide Cantoni, Felix Hagemeister e Mark Westcott dimostrano che atteggiamenti xenofobi rimasti a lungo latenti possono essere risvegliati da un certo tipo di eventi. Essi evidenziano una straordinaria, e altresì preoccupante, correlazione storica tra i comuni tedeschi che votarono in massa per il partito nazista negli anni venti e trenta e quelli in cui l’AdD ha raccolto più voti nel 2016-2017. 

 In particolare, è da notare che questa correlazione storica appare soltanto dopo il 2015, periodo che coincide con l’assunzione della leadership del partito da parte dei suoi membri più radicali e anti-immigrati. Nel 2013, l’AfD era un partito monotematico, anti-euro e contrario al salvataggio della Grecia; due anni dopo, ha cominciato a trasformarsi nel partito xenofobo di destra che è oggi.   

 Questo, però, non significa che l’afflusso di oltre un milione di rifugiati per effetto della Willkommenskultur, la politica di accoglienza della cancelliera tedesca Angela Merkel, abbia contribuito in maniera sostanziale al conteggio dei voti dell’AfD. Al contrario, una densità più elevata di rifugiati in un dato comune è stata associata a un calo dei voti per l’AfD nel 2017, anche se tale rapporto non è considerato rilevante a livello statistico.

 Le molle del populismo
In generale, due sono le interpretazioni che spiegano l’affacciarsi dei partiti populisti sulla scena. La prima scuola di pensiero, che è quella preferita dagli economisti e dai politologi, si concentra prevalentemente sulle condizioni economiche. Una maggiore esposizione agli shock commerciali, unita alla sfiducia nella capacità delle istituzioni politiche di apportare benefici economici, spinge gli elettori con un livello d’istruzione più basso verso il populismo.  

 La seconda posizione, spesso difesa dagli storici dell’economia, sostiene che alcuni tratti culturali profondamente radicati – come gli atteggiamenti xenofobi – possono sopravvivere molto a lungo. In uno studio del 2012 pubblicato sul Quarterly Journal of Economics, Nico Voigtländer della UCLA Anderson School of Management e Hans-Joachim Voth dell’università di Zurigo, dopo aver esaminato una serie di dati sull’antisemitismo in Germania, hanno riscontrato una continuità temporale di circa 600 anni in alcuni contesti specifici.  

 Per fare un esempio, i pogrom dell’epoca della peste nera contro gli ebrei – un indicatore dell’antisemitismo in epoca medievale – «possono essere considerati il preludio delle violenze nei confronti degli ebrei negli anni venti, così come del sostegno al partito nazista, delle deportazioni dopo il 1933, degli attentati alle sinagoghe e delle lettere a Der Stürmer». Voigtländer e Voth hanno scoperto che gli attacchi contro gli ebrei negli anni venti avevano sei volte più probabilità di verificarsi nei piccoli e grandi centri in cui erano avvenute le persecuzioni all’epoca della peste nera. Allo stesso tempo, essi hanno rilevato che la trasmissione dell’odio nel lungo periodo è stata meno forte nelle città con una forte tradizione di scambi commerciali su lunga distanza.

 La persistenza di pregiudizi radicati non è prerogativa della sola Germania. Fino a poco tempo fa, ogni anno verso il periodo di Pasqua, molti bambini spagnoli usavano ancora giocare a un gioco chiamato “ammazza-ebrei”, nonostante la quasi totale assenza degli ebrei in Spagna dal 1492. L’esempio di una forma di antisemitismo senza ebrei rinforza la teoria della trasmissione culturale avanzata da Alberto Bisin dell’università di New York e Thierry Verdier della Paris School of Economics. In un articolo pubblicato nel 2000 sul Quarterly Journal of Economics, i due studiosi dimostrano che i bambini acquisiscono una serie di preferenze attraverso un processo di adattamento e imitazione, e che i genitori spesso indirizzano i figli verso le proprie preferenze, anche quando esse sono inutili o dannose.

 La balla del rapporto tra populismo, commercio e immigrazione
Per quanto riguarda l’epoca attuale, una ricerca recente sul referendum del 2016 sulla Brexit, condotta da Sascha O. Becker, Theimo Fetzer e Dennis Novy dell’università di Warwick, evidenzia che l’esposizione agli scambi commerciali e all’immigrazione può spiegare solo una piccola parte dei voti a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Al contrario, essi collegano la quota di elettori che si è espressa in tal senso soprattutto al livello d’istruzione, alla demografia e alla dipendenza dall’occupazione nel settore industriale. Tale conclusione conferma l’idea piuttosto simile di Voigtländer e Voth, secondo cui, in linea generale, l’esposizione al commercio e all’immigrazione non è il motore principale del populismo.    

 C’è un’incongruenza particolarmente evidente tra i dibattiti politici nel periodo precedente al referendum sulla Brexit, che erano perlopiù incentrati sull’immigrazione, e le variabili che di fatto ne spiegano il risultato. In realtà, lo studio di Becker, Fetzer e Novy evidenzia che la quota degli immigrati è «correlata negativamente con il voto sulla Brexit», poiché i nuovi arrivati si sono stabiliti soprattutto in aree urbane che «nel 2016 hanno votato per restare nell’Ue». L’eccezione, osservano gli autori, è che «soltanto i migranti provenienti dai Paesi dell’Europa dell’est candidati all’adesione all’Ue sono correlati positivamente con la quota di voti a favore dell’uscita». Da ciò si potrebbe dedurre che i migranti non specializzati provenienti dall’Europa orientale abbiano esercitato una pressione al ribasso sui salari dei lavoratori britannici meno qualificati, i quali a loro volta hanno votato per abbandonare l’Ue.    

 Allora, perché una più elevata densità di rifugiati e immigrati sarebbe associata a una diminuzione dei voti per l’AfD in Germania, e a una quota inferiore di voti a favore della Brexit? Sociologi e psicologi risponderebbero a questa domanda chiamando in causa la “teoria del contatto intergruppi”. Più interazioni si hanno con gli stranieri, più le ansie legate agli immigrati tendono a placarsi. E come hanno dimostrato Thomas F. Pettigrew dell’università della California, Santa Cruz, e Linda R. Tropp del Boston College, il contatto intergruppi tra gruppi etnici diversi spesso conduce a un’accettazione reciproca in una vasta gamma di situazioni.   

 Ecco perché anche la prospera Germania può assistere alla rinascita del populismo di destra. Sfruttando tratti culturali ben radicati in aree meno esposte nel lungo periodo agli scambi commerciali e all’immigrazione, come i Neuen Bundesländer (stati ubicati nell’ex Germania dell’est), un partito populista e xenofobo è riuscito a introdurre un cambiamento profondo nel panorama politico tedesco. Sembrerebbe, quindi, che il commercio e l’immigrazione non siano la causa del populismo, bensì piuttosto parte della soluzione.  

 Traduzione di Federica Frasca
Dalia Marin è docente di economia all’università Ludwig Maximilian di Monaco, e membro del Center for Economic and Policy Research.

 Copyright: Project Syndicate, 2018.
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