Il presidente americano Donald Trump potrà pure ritenersi un costruttore, ma sul piano delle normative e dei trattati internazionali si sta comportando come una squadra di demolizione nel corpo di un solo uomo. E ora il caos sembra sempre più diffuso e in aumento.
Soltanto negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump, ispirata allo slogan “America First”, ha annunciato sanzioni commerciali contro il colosso della tecnologia cinese ZTE, ma poi è tornata sui suoi passi – sentite un po’ – per salvare posti di lavoro cinesi. E solo alcune settimane dopo che il segretario al Tesoro Steven Mnuchin aveva “congelato” una guerra commerciale con la Cina, l’amministrazione ha dichiarato che avrebbe comunque imposto dazi su importazioni cinesi per un valore di 50 miliardi di dollari, applicando in modo indiscriminato anche delle tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio.
Certamente, sebbene i consiglieri di Trump abbiano lanciato messaggi confusi sul commercio, questo è forse l’unico tema su cui il presidente stesso è rimasto coerente, a scapito delle alleanze e dei rapporti economici degli Usa. Quasi subito dopo aver assunto l’incarico, Trump ha accantonato il TTIP, la partnership transatlantica sul commercio e gli investimenti, e ritirato gli Stati Uniti dal TPP, l’accordo di partenariato transpacifico. Il TPP non solo avrebbe riunito gli Usa e altri 11 Paesi dell’area del Pacifico in un blocco commerciale unico, ma avrebbe anche fissato regole e standard a livello regionale che persino la Cina sarebbe stata costretta a seguire, pur essendone esclusa.
Ma se Trump non ha avuto difficoltà a rottamare il TTIP e il TPP, il NAFTA, l’accordo nordamericano di libero scambio tra Usa, Messico e Canada continua a scatenare la sua ira. Il NAFTA, e in particolare il ruolo del Messico in esso, sembra riassumere tutti gli argomenti scottanti che hanno infiammato la base di Trump durante la campagna per le presidenziali del 2016. A sentire il presidente americano, l’accordo è una fonte di perdita di occupazione nel settore industriale e un perfetto esempio della presunta “ingiustizia” degli accordi commerciali in generale. Pertanto, egli ha promesso ai suoi sostenitori di usare la minaccia dell’uscita dal NAFTA per costringere il Messico a pagare il suo “muro di separazione” e a fermare il flusso degli immigrati clandestini – che ha descritto come “stupratori” e “animali” – attraverso il confine.
Questa strategia non ha funzionato. Nell’ultimo anno, però, l’amministrazione Trump ha partecipato ad alcuni incontri con i governi messicano e canadese per rinegoziare le condizioni dell’accordo, e ora le trattative stanno per giungere a un punto cruciale. Dal momento che Trump ha distrutto qualunque impegno assunto dagli Stati Uniti di cui si sia occupato, il Messico e il Canada, nonché il mondo intero, hanno tutte le ragioni per prepararsi al peggio.
La verità sul NAFTA
Dopo la seconda guerra mondiale, per decenni il Messico ha portato avanti molte delle politiche economiche disastrose perseguite da altri Paesi in via di sviluppo, come mantenere elevate le barriere protezionistiche per i manufatti e dipendere dall’esportazione di materie prime, primo fra tutti il petrolio. Di conseguenza, il Paese ha registrato periodi di stop and go ricorrenti, in cui una crescita dell’inflazione e l’aumento dei deficit della bilancia dei pagamenti imponevano un ciclo di austerità, solo perché poi il processo si ripetesse dopo l’incremento dei prezzi delle materie prime, ma a un ritmo di crescita ogni volta più lento. Com’era prevedibile, il ritmo di crescita in questi anni ha seguito un andamento fortemente altalenante e all’inizio del 1989 il reddito pro capite del Messico ammontava a circa 2.393 dollari, ovvero a circa l’11% di quello statunitense.
All’inizio degli anni novanta, il presidente messicano Carlos Salinas e il suo team economico ribaltarono la politica commerciale del paese e prepararono il terreno per i negoziati su un accordo di libero scambio (FTA) con gli Stati Uniti. L’amministrazione del presidente Bill Clinton salutò con favore la nuova strategia economica di Salinas dando subito il proprio benestare alle trattative, che inclusero il Canada poiché aveva già un accordo di libero scambio con gli Usa. Gli Stati Uniti volevano da tempo che il Messico liberalizzasse il proprio regime commerciale e consentisse una maggiore penetrazione economica, e ora avevano la possibilità di vedere realizzati questi cambiamenti.
Prima del NAFTA, tra i due terzi e i tre quarti del volume totale degli scambi commerciali del Canada e del Messico avvenivano con gli Stati Uniti, mentre circa un quarto di quelli statunitensi avveniva con il Canada e il Messico. All’epoca, però, le tariffe americane sulle importazioni dei manufatti in media si aggiravano intorno al 2%, mentre quelle del Messico sulle esportazioni statunitensi erano pari a circa il 10%. Sin dall’inizio, dunque, era chiaro che gli Usa avrebbero beneficiato maggiormente di un migliore accesso al mercato messicano che non viceversa.
Eppure, nonostante gli ovvi vantaggi, vi fu un forte dissenso politico negli Stati Uniti in merito alla possibilità che i lavoratori messicani mettessero a rischio posti di lavoro americani. Nel 1992, durante un dibattito presidenziale, il candidato indipendente Ross Perot avvertì, con un’espressione rimasta celebre, che un accordo di libero scambio con il Messico avrebbe provocato «un gran rumore di risucchio negli Stati Uniti». Naturalmente, ciò non è mai accaduto.
Il NAFTA entrò in vigore il primo gennaio 1994, e tra il 1993 e il 2000 la disoccupazione in America è scesa dal 6,9% al 4%. Oggi è attestata al 3,8%, il livello più basso da quasi due decenni. Gli economisti generalmente considerano un tasso di disoccupazione del 4-4,5% come indicativo di un’economia vicina alla “piena occupazione”, il che significa che, potenzialmente, tutti coloro che desiderano e sono in grado di lavorare possono trovare un lavoro.
In altri termini, nel 1993 l’occupazione civile totale negli Stati Uniti era pari a circa 120,3 milioni, in confronto ai 136,9 milioni del 2000 e ai 148,8 milioni del 2016. Il turnover annuo dei posti di lavoro oggi è pari a circa il 20%, e solo una piccola quota degli utili o delle perdite è attribuibile al Messico. Complessivamente, anche se alcuni posti di lavoro americani sono andati perduti nel periodo di vita del NAFTA, sono stati molti di più quelli acquisiti, non solo grazie all’aumento delle esportazioni per effetto dell’abbassamento dei dazi messicani, ma anche grazie al calo dei costi dei fattori produttivi per i produttori statunitensi, che ha favorito la loro competitività a livello internazionale.
Con l’entrata in vigore del NAFTA, gli scambi commerciali tra gli Stati Uniti e il Messico sono cresciuti rapidamente, in parte perché le catene del valore transfrontaliere si sono moltiplicate. I produttori messicani che impiegavano manodopera non qualificata sono diventati esportatori di pezzi di ricambio per automobili e altri beni verso gli Usa. D’altro canto, i produttori americani che importavano questi fattori produttivi meno costosi si sono ritrovati in una posizione migliore per competere con aziende giapponesi, europee e di altri Paesi che già usufruivano di componenti a basso costo provenienti dall’Asia meridionale e sud-orientale e dall’Europa orientale. Inoltre, le imprese statunitensi hanno investito in infrastrutture messicane, consentendo alle aziende del Messico di espandere la propria capacità produttiva più velocemente e di soddisfare la crescente domanda dei produttori americani.
Tali attività di scambio e investimento hanno sicuramente giovato a entrambi i Paesi. L’accesso a componenti più economici ha fatto abbassare i costi dei produttori americani, mentre le esportazioni verso il Messico sono aumentate. Nel frattempo, la produzione, l’occupazione e i salari messicani sono cresciuti più di quanto non sarebbe accaduto altrimenti. Per tutti e tre i Paesi firmatari, il NAFTA rappresenta un successo.
Cattiva fede e pessimi risultati
Ciò nonostante, l’amministrazione Trump ha insistito per rinegoziare l’accordo. Certo, esso poteva essere aggiornato in vari modi, in modo da riflettere i cambiamenti intervenuti nell’attività economica dall’inizio degli anni novanta, anche per effetto dei progressi in campo tecnologico. Ma Trump non si è focalizzato su questo. I suoi negoziatori hanno chiesto di apportare delle modifiche destinate a trasformare il NAFTA in un accordo svantaggioso per tutti.
Alcune delle richieste rivolte al Messico, in particolare, sono talmente scandalose da risultare inaccettabili per qualunque Paese. Altre, invece, come la proposta statunitense di applicare norme di origine più severe (secondo cui una certa percentuale di prodotti importati deve essere realizzata all’interno del blocco commerciale del NAFTA), presentano delle criticità, ma forse non escludono la possibilità di un compromesso.
Purtroppo, l’approccio estremo dell’amministrazione Trump ha reso impossibile qualunque ragionevole progresso, anche in aree in cui avrebbe potuto esserci un margine di miglioramento. Una delle tattiche più disturbanti degli Usa è stata la pretesa che il Messico adeguasse le retribuzioni degli operai del settore automobilistico a quelle dei loro omologhi statunitensi. Attualmente, lo stipendio minimo in Messico è di circa 4 dollari al giorno, e di circa 6 dollari nelle industrie manifatturiere. Ma la soglia retributiva che i negoziatori statunitensi avrebbero richiesto è pari a 16 dollari l’ora, cioè 21 volte lo stipendio medio del settore industriale messicano. In pratica, è come chiedere agli Usa di aumentare la paga degli operai del settore automobilistico americano fino a 588 dollari l’ora (in base alla retribuzione oraria media di 28 dollari per i lavoratori sindacalizzati del settore).
Inutile dire che nessun produttore al mondo potrebbe assorbire o approvare un simile incremento dei costi. Le aziende messicane dovrebbero chiudere o richiedere una protezione tariffaria che, nel migliore dei casi, consentirebbe loro di produrre soltanto per il più ristretto mercato messicano. Fra l’altro, è inconcepibile che l’elettorato messicano possa tollerare che una categoria di lavoratori guadagni 128 dollari al giorno mentre tutte le altre continuano a guadagnarne in media 4-6. Le ripercussioni sul piano sociale e politico sarebbero impossibili da gestire. Di fatto, la richiesta dell’amministrazione Trump è talmente assurda che persino l’industria automobilistica statunitense si è detta contraria, se non altro per gli effetti che avrebbe sulla catena del valore dei produttori americani.
Un’altra richiesta impossibile da parte degli Usa, che avrebbe effetti negativi tanto sul Canada quanto sul Messico, è una clausola di caducità che costringerebbe ciascun governo a rinnovare il NAFTA rinegoziato ogni cinque anni. Il fatto che l’intero trattato possa teoricamente scadere ogni cinque anni creerebbe uno stato di perenne incertezza tra le imprese di tutto il Nordamerica. La maggior parte delle aziende basa le proprie decisioni in materia di investimenti, così come i piani di produzione, su un arco temporale di almeno cinque anni, perciò è difficile pensare che ce ne sarebbe qualcuna disposta a investire in Messico per vendere al mercato statunitense a queste condizioni.
Una logica commerciale inconsistente
Come se la situazione non fosse abbastanza paradossale, l’amministrazione Trump ha recentemente imposto al Messico e al Canada dazi del 25% e 10% rispettivamente sull’acciaio e l’alluminio importati, dopo aver prima cercato di usare la possibilità di un’esenzione dagli stessi come moneta di scambio nelle trattative sul NAFTA. Queste tariffe indiscriminate sui metalli – che ora sono state anche imposte agli alleati europei dell’America – sono particolarmente discutibili per ovvie ragioni, dal momento che faranno lievitare i costi per tutte le aziende statunitensi che utilizzano componenti in acciaio e alluminio, un segmento che ovviamente comprende l’industria automobilistica.
L’amministrazione Trump ha giustificato i dazi con motivi legati alla sicurezza nazionale, il che non ha alcun senso considerando che sono gli alleati degli Usa a sopportarne i costi. L’eccezione è la Corea del Sud, che è stata esentata dalle tariffe perché ha acconsentito all’introduzione di quote che limitano le sue esportazioni di acciaio verso gli Stati Uniti.
L’approccio dell’amministrazione Trump sia verso gli alleati sia verso gli avversari rappresenta un “commercio gestito” del peggior tipo, da cui gli Stati Uniti e altri Paesi con un’economia basata sul mercato hanno preso le distanze da tempo. La Corea del Sud ha raggiunto una crescita forte e sostenuta soltanto dopo aver liberalizzato le proprie politiche commerciali ed economiche, intorno al 1960, con il sostegno degli Stati Uniti.
Ora, però, in base al nuovo accordo con l’amministrazione Trump sugli scambi gestiti, la Corea del Sud deve creare un apparato amministrativo per limitare le esportazioni dei suoi produttori di acciaio verso gli Usa. Ciò significa tenere traccia di cinquantadue categorie di acciaio diverse per garantire che il volume dell’export resti al di sotto del 70% del livello raggiunto negli anni 2014-2017. Si stima che, per quest’anno, la Corea del Sud abbia già raggiunto la quota stabilita in nove categorie di acciaio.
Allo stesso tempo, vi è l’esigenza di monitorare e regolamentare l’afflusso di acciaio e alluminio, da parte degli Stati Uniti, della Corea del Sud, oppure di entrambi i paesi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, ampliare i servizi doganali per espletare questo compito comporterebbe ingenti costi amministrativi; inoltre, è assai probabile che il nuovo assetto porterebbe a un traffico d’influenza di ogni genere, con le aziende che cercano di accaparrarsi i pochi permessi disponibili dai funzionari delle dogane.
Destinati al fallimento
Non c’è ragione di credere che il Messico o il Canada accetteranno le richieste dell’amministrazione Trump a meno che esse non vengano notevolmente ridimensionate. Ma anche qualora le accettassero in una qualche versione, il risultato sarà l’opposto di quello immaginato da Trump e dal suo team.
Ci sono circa 80.000 posti di lavoro nell’industria americana dell’acciaio, oltre 900.000 in quella automobilistica, e milioni in altri settori che utilizzano l’acciaio o l’alluminio. Le tariffe sui metalli imposte dall’amministrazione Trump faranno salire i prezzi delle automobili e ridurranno la domanda interna, andando così a compensare l’eventuale aumento di posti di lavoro nell’industria automobilistica sperato da Trump. E se Trump dovesse attuare la minaccia d’imporre dazi del 15-25% sulle auto importate, in tutto il paese si registrerebbe un calo delle vendite di cui farebbero le spese centinaia di migliaia di lavoratori impiegati nella vendita e manutenzione delle automobili.
Al di là dell’industria automobilistica, l’aumento dei prezzi dei prodotti che utilizzano l’acciaio e l’alluminio rischia di deprimere la domanda e di mettere a rischio la produzione e l’occupazione in un’ampia gamma di settori. Molti produttori legati all’uso dell’acciaio e dell’alluminio sono in concorrenza con produttori di altre parti del mondo. Proteggendo i produttori interni, però, l’amministrazione Trump sta facendo salire i prezzi dell’acciaio e dell’alluminio all’interno degli Stati Uniti, facendoli scendere nel resto del mondo. In sostanza, Trump sta concedendo addirittura più vantaggi in termini di costi ai produttori stranieri, senza alcun motivo.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno aperto la strada alla creazione di un sistema commerciale basato sulle regole, dapprima con il GATT, l’accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, quindi con la sua erede, l’Organizzazione mondiale del commercio. Gli ultimi 73 anni hanno dimostrato che, quando sussistono reclami legittimi tra partner commerciali su questioni come i segreti tecnologici, i tentativi di risoluzione bilaterali spesso si rivelano inefficaci, mentre le azioni intraprese tramite l’Omc vantano ottimi precedenti. A meno che e fino a quando l’amministrazione Trump non riconoscerà questo fatto, saranno gli americani stessi a pagare il prezzo delle sue disastrose politiche commerciali.
Traduzione di Federica Frasca
Anne O. Krueger, ex capo economista della Banca mondiale ed ex primo vice direttore generale del Fondo monetario internazionale, è ricercatrice senior di economia internazionale presso la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University, e senior fellow al Center for International Development dell’università di Stanford.
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