Negli ultimi dieci giorni ben sei banche centrali di Paesi avanzati hanno comunicato la loro strategia di politica monetaria. Gli osservatori superficiali hanno notato che la dispersione dei tassi di interesse è aumentata, andando da livelli negativi, passando dallo zero e arrivando al territorio positivo.
In realtà, tutte e sei le banche centrali hanno scelto una strategia comune: rallentare il processo di normalizzazione della politica monetaria. In più tutte hanno esplicitato almeno una ragione in comune: l'aumento dell'incertezza. Ma ci possono essere altri fattori. La settimana appena trascorsa ha chiuso un periodo di annunzi monetari da parte delle maggiori banche centrali, il cui segno sembra apparentemente eterogeneo. La banca centrale americana (FED) ha messo in atto – con una decisione all'unanimità - un aumento dei tassi di interesse, con un livello di questi ultimi che può arrivare a duecento punti base, e con proiezioni che fanno scommettere i mercati su un ulteriore innalzamento di cinquanta punti base entro la fine del 2018. Entro la stessa data, la banca centrale europea (BCE) ha annunziato - sempre all'unanimità - che spegnerà progressivamente la politica straordinaria di acquisti di titoli sui mercati finanziari; al contempo però terrà i suoi tassi a zero per i prestiti ed in territorio negativo per i depositi almeno fino all'estate 2019.
La banca centrale inglese ha confermato – con sei voti a favore su nove - il suo tasso di interesse di riferimento a cinquanta punti base, come pure l'atteggiamento in termini di titoli in portafoglio, che non si modificherà almeno fino a quanto il sopra citato tasso di interesse non raggiungerà i centocinquanta punti base. La banca centrale giapponese ha confermato – con un solo voto contrario, peraltro giudicando poco espansiva la politica scelta – i tassi in territorio negativo e la continuazione degli acquisti sul mercato dei titoli. Lo stesso ha fatto la banca centrale svizzera – che ha tassi negativi fino a settantacinque punti base – mentre la banca centrale norvegese ha mantenuto il suo tasso di riferimento a cinquanta punti base. Dunque una serie di decisioni dei banchieri centrali che fissano livelli diversi dei tassi – perché diverso è lo stato della congiuntura – ma che hanno un tratto comune: il percorso di normalizzazione della politica monetaria ha rallentato.
Esiste una ragione comune che si ritrova nei comunicati ufficiali: è aumentata l'incertezza macroeconomica a livello globale, anche perché la minaccia di una guerra protezionistica tende a far rivedere verso il basso tutte le previsioni di crescita. A confermare che protezionismo fa rima con populismo, se populismo significa definire politiche economiche apparentemente redistributive a favore della maggioranza, ma in realtà miopi, in quanto nocive per tutti appena si allunga un po' l'orizzonte temporale. Ma forse non basta l'incertezza per spiegare la frenata delle banche centrali.La paura della normalizzazione monetaria può avere altre motivazioni, che rafforzano e si intrecciano con l'effetto incertezza.
Intendiamoci: il ritardo della normalizzazione non è un fenomeno inedito di per sé; ma sono le sue caratteristiche ad essere peculiari questa volta. Prendiamo gli Stati Uniti. Nelle tre ultime recessioni prima della Grande Crisi, il ritardo era stato rispettivamente di 7, 35 e 32 mesi. Questa volta, tenendo conto che la recessione americana è finita nel giugno 2009 ed il primo rialzo dei tassi è avvenuto nel dicembre del 2015, il ritardo è durato 78 mesi. Non solo: da allora ad oggi l'orientamento della politica monetaria è rimasto espansivo, visto che gli attuali tassi appaiono lontani da un livello normale di oltre cento punti base. La prudenza a normalizzare può dipendere dal fatto che per il banchiere centrale in questo momento è più costoso sbagliare se ci si comporta da falco, piuttosto che mantenere un atteggiamento da colomba, ritardando il ritorno ad una politica monetaria neutra, o addirittura restrittiva. Dopo una Grande Crisi, una restrizione errata ha effetti sulla crescita, mentre una espansione errata provoca distorsioni non evidenti, come il rischio bolla. In termini di restrizioni errata, basta solo ricordare l'errore che Trichet fece nel 2011. Ma pubblico e politici sono oggi più sensibili alla crescita che al rischio bolla, quindi di riflesso l'avversione dei singoli banchieri centrali alle perdite reputazionali si accentua nei confronti del rischio recessione. Di riflesso, anche raggiungere il consenso all'interno dei consigli delle banche centrali per un rallentamento della normalizzazione è più facile: non è forse un caso che le decisioni prima ricordate sono state raggiunte all'unanimità, o comunque con forti maggioranze.
E forse non è neanche un caso che le istituzione monetarie che più sottolineano i rischi di eccesso da espansione monetaria sono quelle internazionali, che non hanno responsabilità dirette di governo della moneta e dei tassi. Insomma, la normalizzazione è come una strada in discesa per i banchieri centrali; senza freni si rischia di farsi male.
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