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Paradossi e opportunità del protezionismo

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il caso harley-davidson

Paradossi e opportunità del protezionismo

Non è piaciuta a Donald Trump la decisione dell’unica grande casa americana di motociclette, la celebre Harley-Davidson, di reagire alla notizia dei dazi protezionistici europei in risposta a quelli Usa esplorando immediatamente la possibilità di creare un impianto di produzione all’interno di un Paese della Ue. Quale prodotto, infatti, possiede una più inconfondibile aura nordamericana che un chopper dal grande manubrio ricurvo, secondo lo stile reso famoso da un indimenticabile film di cinquant’anni fa, Easy Rider di Dennis Hopper? Non ci vuole molto a immaginare il disappunto di Trump, che vuole rinserrare ermeticamente dentro i confini degli Stati Uniti tutte le produzioni storiche americane, a cominciare da quelle più note e caratterizzate. Perciò il presidente ha invitato il management di Harley-Davidson a pazientare prima di aprire una fabbrica in Europa.

Sono questi i paradossi del protezionismo, una politica che scatena una serie di mosse e contromosse del tutto imprevedibili all’inizio, tali da sospingere verso direzioni non volute. Per Harley-Davidson c’è poco da fare: per realizzare il proprio volume d’affari deve guardare ai mercati internazionali, specie in un momento di cambiamento e d’innovazione dei prodotti.

Harley-Davidson resta un’importante realtà manifatturiera degli Usa, con un fatturato globale attorno ai 6 miliardi di dollari all’anno e una capitalizzazione di Borsa pari a 7,4 miliardi di dollari. Per giunta, la sua sede sta a Milwaukee, nel Wisconsin (dove l’azienda è nata nel 1903, lo stesso anno di fondazione della Ford), dunque in un territorio che ha attorno a sé la pressione della Rust Belt, la fascia della ruggine, reduce da almeno tre decenni di deindustrializzazione.

È vero che il governo ha avuto un occhio di riguardo per Harley-Davidson, un marchio che non si vuole assolutamente far scomparire. Ma una tariffa di protezione del 20% ha una ripercussione pesante sui prezzi delle sue moto, che in Europa trovano almeno 40mila compratori all’anno. Non c’è dubbio che le vendite di prodotti di alto prezzo (i modelli più grandi superano agevolmente la soglia dei 20 mila euro) ne risentirebbero e così il giro d’affari complessivo, che ristagna già da qualche anno. Insomma, per Harley-Davidson (che trae dall’attività manifatturiera il 90% dei propri ricavi) rafforzare la proprio quota sui mercati internazionali è una questione strategica. Già possiede stabilimenti in Asia; crearne un altro in Europa non sarebbe affatto una scelta fuori dal suo corso d’azione.

Le prime voci hanno indicato la Repubblica Ceca o la Slovacchia come i Paesi naturali destinatari delle attenzioni di Harley-Davidson. Può darsi; ma non sono certo le uniche opzioni a poter entrare in campo. Ci sono almeno due occasioni di rilievo il cui la vicenda del marchio americano ha incrociato quella dell’industria motociclistica italiana. La prima è stata all’inizio degli anni Settanta, quando Harley-Davidson definì una partnership con la divisione motociclistica di Aermacchi, della quale acquisì una partecipazione per produrre moto sportive di media cilindrata. La seconda occasione è stata dieci anni fa, nel 2008, quando la casa americana comprò uno dei marchi storici del nostro motociclismo, la MV Agusta, quello con cui Giacomo Agostini conquistò una lunga serie di titoli mondiali.

È chiaro che se il problema sta nel mettere a punto in pochi mesi un impianto di montaggio in grado di soddisfare le esigenze immediate del mercato, non è necessario ricorrere alle sofisticate competenze motoristiche che sono patrimonio della nostra industria. Ma forse, in prospettiva, potrebbe non trattarsi soltanto di questo, se è vero che Harley-Davidson ha in programma di lanciare un centinaio di nuovi modelli nei prossimi anni. Tra di essi spicca (e poteva mancare di questi tempi?) quello di una moto elettrica, innovativa per tecnologia e prestazioni.

La versatilità dell’industria italiana, la sua flessibilità e la crescente attitudine alla sperimentazione la rendono potenzialmente un partner ideale per le imprese che sono alla ricerca di nuove strategie allo scopo di incrociare efficacemente prodotti e mercati. Ci sono filiere straordinariamente adatte a pilotare l’evoluzione e la progettazione tecnologica.

Da questo punto di vista, l’irruzione traumatica del protezionismo e delle contromisure che esso suscita nella scena economica internazionale, se in prima battuta minaccia di interrompere dei cicli di sviluppo, non è detto che in seguito non dischiuda opportunità proprio per Paesi che hanno una struttura produttiva versatile come la nostra. Certo, a patto che governo e politica se ne ricordino e non ne ostacolino gli sforzi di trasformazione.

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