Rendere più convenienti i contratti full time rispetto a quelli a tempo ha una logica. Farlo con l’aumento dei contributi per i contratti a termine e con il ritorno del balzello burocratico delle causali per i loro rinnovi non è la stessa cosa. Tuttavia sembra essere questa la strada annunciata alla vigilia del “decreto dignità”. Risultato: i contratti a tempo indeterminato manterranno il loro “appeal” invariato (dunque non se ne farà neanche uno in più).
Mentre i contratti a termine diminuiranno, con il rischio di alimentare di nuova la zona del lavoro grigio e border line. E il totale dei numeri del lavoro, vero obiettivo di un Governo di svolta attento ad assorbire la maggior quantità di esclusi, rischia di fotografare una diminuzione dell’occupazione.
L’approccio “punitivo” e ottocentesco, che vede nei datori di lavoro solo un manipolo di approfittatori e di sfruttatori del bisogno altrui, produce una visione semplificata e sfuocata delle dinamiche sul mercato del lavoro oltre a rischiare una clamorosa eterogenesi dei fini. Il lavoro, nè oggi nè mai, è fatto solo dalle regole: è soprattutto evoluzione dei comportamenti e delle dinamiche produttive e sociali indotte dalla tecnologia e dai mutamenti dei valori collettivi. Per il sociologo Daniele Marini siamo passati dalla classe operaia ai «lavoratori imprenditivi» della quarta rivoluzione industriale(«Fuori classe», edizioni Il Mulino), uno sconvolgimento in atto, ma forse non ancora compresa appieno. Non basta la caricatura della gig economy affidata al futuro contratto per i rider, sorgono esigenze nuove di gestione del tempo e delle libertà, individuali e d’impresa. Una sfida grande per gli attori della politica e per il dibattito pubblico.
Che non sembra raccolta appieno se, ad esempio, si guarda alle prime versioni (punitive) sul tema del lavoro a somministrazione, per fortuna in fase di smontaggio: non più - come accade oggi - contratti a tempo indeterminato presso le agenzie del lavoro che smistano il personale “interinale” presso i diversi utilizzatori, ma solo contratti a tempo determinato con un aggravio di contributi e con la già citata complicazione delle causali. In questo caso si sarebbe preferito ridurre il numero dei rapporti di lavoro stabili per trasformarli in quello che i detrattori dei contratti a termine (tra cui gli estensori della normativa annunciata) hanno sempre definito “precariato”. Una operazione “al contrario” tanto da essere, con ogni probabilità, archiviata dagli stessi proponenti. Che tuttavia lascia capire come, al fondo, le agenzie del lavoro private vengano vissute come un nemico. Anche perché spesso si tratta di multinazionali, connotazione ormai negativa di per sé nella narrazione giallo-verde. Soprattutto adesso che saranno i Centri per l’impiego, quelli di matrice pubblica, magari con il nostalgico retrogusto dei vecchi uffici di collocamento buoni solo a smistare bolli e timbri, il nuovo hub del sistema delle politiche attive del lavoro disegnato (o meglio finora solo abbozzato) dal ministro Luigi Di Maio. L’anacronistico ritorno all’assistenzialismo e alla presenza pubblica nell’economia può ancora essere corretto. Se solo si abbia la voglia (o l’umiltà) di volelo almeno vedere.
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