Il giorno prima del voto in Commissione affari legali sulla direttiva diritto d’autore, un carosello di camion-vela faceva girotondo su Place du Luxembourg, di fronte l’entrata principale del Parlamento di Bruxelles. Su uno si leggeva: «Caro relatore, come puoi ignorare l’appello di 1.200 piccoli editori». Su un altro: «Cari onorevoli, volete davvero essere ricordati per aver censurato Internet?».
La manifestazione si presentava quindi come di piccoli editori assieme ad attivisti della libertà di espressione.
Era proprio così? Non esattamente. Sulle vele, in alto a sinistra, c’era una firma: EDiMA (http://edima-eu.org), l’associazione europea delle grandi imprese del web, con soci come Apple, Amazon, Google, Facebook.
Il tutto per contrastare la riforma del diritto d’autore in discussione da oltre due anni, finalmente in dirittura d’arrivo.
Tema complesso, da specialisti che per anni hanno (abbiamo) sottovalutato il fatto che tale complessità consente ogni genere di semplificazioni, persino paradossali, come quelle veleggianti sotto il cielo nuvoloso di Bruxelles.
Dal punto di vista degli editori il paradosso è duplice: che ci siano editori che protestano perché la Direttiva attribuisce loro un diritto in più, senza fare per altro nulla di inedito, giacché prevede che gli editori di giornali (e solo quelli, vai a capire perché) abbiano un cosiddetto “diritto connesso”, aggiuntivo e indipendente dal diritto dell’autore, come già i produttori musicali e audiovisivi, che consente loro di controllare più efficacemente l’utilizzo delle opere su cui hanno investito; e che si accusi di intenti censori l’intera industria culturale europea solo perché ha un’opinione opposta a quella di EDiMA.
Il caso è interessante perché consente di ragionare sul ruolo dell’editore oggi, sulla sua necessità sociale e democratica, ancor prima che economica. Le accuse di censura derivano infatti dalle norme che danno alle piattaforme web una tenue responsabilità in caso di violazioni di diritti d’autore. Per sfuggire a tale responsabilità esse sono chiamate a operare controlli per prevenire gli abusi. La censura deriverebbe dalla circostanza per cui una piattaforma abituata a non prendersi alcuna responsabilità su ciò che pubblica dovrebbe iniziare a farlo.
È questa responsabilità, sociale prima che legale, che mette in luce la necessità dell’editore, di chi difende allo stremo i diritti dell’autore (per favore, non usiamo il termine “copyright”, che è traduzione inglese imprecisa e se utilizzato in italiano è errato due volte) non solo di fronte a chi lo deruba non riconoscendo ciò che gli è dovuto, ma ancor prima di fronte a chiunque cerchi di conculcarne la libertà di espressione. Gli editori di libri o di giornali seguono sempre i propri autori nelle aule di giustizia, quando il potente di turno vorrebbe tarpar loro la penna, non li abbandonano reclamando un totale safe harbor su ciò che passa dai loro servizi. Certo costa, come amano ricordare le ricchissime aziende che finanziano le vele di Bruxelles. Ma è un prezzo cui non ci si può sottrarre se si vuole poi sventolare la bandiera della libertà di espressione.
C’è un terzo paradosso in questo dibattito europeo: la scarsa fiducia che le imprese del web sembrano mostrare verso le tecnologie. Sotto questo profilo, sembrano stravaganti le tesi per cui «i controlli preventivi sul rispetto dei diritti non si possono fare perché gli algoritmi sono inefficaci»; «i piccoli editori sono danneggiati perché le nostre macchine non sono in grado di capire le politiche sui diritti che vengono loro attribuiti»; «le eccezioni al diritto d’autore sono preferibili alle licenze, perché il digitale non è in grado di gestire queste ultime». La verità è che se il controllo sulle opere rimane nella disponibilità piena dell’autore, lo sfruttamento delle posizioni dominanti sul web è meno agevole. Le tecnologie per gestire i diritti d’autore in modo consapevole e trasparente esistono e basta adottarle. I limiti non sono tecnici, ma di modelli economici basati sul potere monopolistico.
I camion-vela di Place du Luxembourg ci raccontano di mega-imprese che si ergono a paladine dei deboli. Gli editori preferiscono parlare per sé, in difesa di un diritto le cui basi sono in fondo semplici: che ciascun autore, dallo scrittore di successo a chi scrive versi su una pagina Facebook, ha pieni diritti sulla propria creazione. È il principio che ha emancipato la cultura dal controllo di re e mecenati e che ancora oggi è in grado di difenderla di fronte al controllo dei monopoli dell’intermediazione digitale.
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