Il dibattito sul populismo e il suo antidoto riformista alimentato su queste pagine dagli interventi di Sergio Fabbrini e Salvatore Carrubba merita attenzione da parte degli addetti ai lavori, specie in un contesto nel quale le culture politiche sono tutte lambite, se non colonizzate, dal “virus” populista.
Vale la pena a mio parere cominciare dal centro-destra. O da quello che ne rimane.
Secondo gli ultimi sondaggi, la maggioranza populista di governo, per quanto la si possa giudicare male assortita e instabile, rasenta il 60%; Forza Italia è ai minimi storici. Lo scenario che si profila davanti agli elettori moderati è l’annichilimento pratico di questa opzione politica.
La domanda però è d’obbligo: esistono ancora, in Italia, elettori moderati? E, nel caso, qual è il loro peso nel centro-destra (ormai derubricato a nom de plume buono solo per i sondaggi), a prescindere dalle offerte politiche ora in campo?
La base sociale di questa cultura politica un tempo era molto più chiara, tenuta insieme anzitutto dal collante dell’anticomunismo, una posizione certo meno sbandierata dello speculare antifascismo anche perché non in grado di garantire le stesse rendite, ad ogni livello: politico, culturale, di status. Laddove l’antifascismo è presentato come fenomeno di massa e delle masse, l’anticomunismo si è ritagliato lo spazio di attitudine individuale di opposizione a questa massificazione della coscienza politica, e come tale ha fornito uno scarno contenuto ideologico a quelle forze politiche che hanno tentato, a volte con successo, di rappresentarlo.
In altre parole, c’era bisogno di più di questo per poter aspirare a diventare cultura maggioritaria nel nostro Paese.
Venne in soccorso la sedicente “rivoluzione liberale”, un sogno enunciato in uno slogan anche lessicalmente male assemblato, ma bastevole a mobilitare la mitica maggioranza silenziosa che fremeva sotto le ceneri del compromesso catto-comunista.
Un sogno e uno slogan, appunto, niente di più. Sul quale hanno gravato e gravano ancora fenomeni completamente antitetici a quella che avrebbe dovuto essere la sua ispirazione di fondo, come il conflitto di interessi, il leaderismo ossessivo, il centralismo plebiscitario, il disprezzo delle regole, il sovranismo. La rivoluzione, insomma, si era fatta manutenzione conservatrice di interessi e rendite che la allontanavano inesorabilmente dall’ispirazione liberale.
A cavallo del terzo millennio, un’evoluzione (involuzione?) in senso identitario di questa offerta politica ha portato a scimmiottare le culture wars neoconservatrici di stampo nordamericano, alla ricerca di un consenso politico attorno alla difesa dei cosiddetti valori non negoziabili, propugnando nei fatti uno iato tra valori cristiani di destra e di sinistra.
Ma come ricordava Joaquin Navarro-Valls qualche anno fa su Repubblica: «Un ethos è autenticamente tale quando riesce a conformare una visione intera della vita, altrimenti perde ogni credibilità. Un ethos asimmetrico, settoriale, manca di razionalità. Una visione etica settorializzata, fatta a macchie di leopardo, assomiglia ad una persona che dice la verità solo ogni tanto e vuole essere creduta sempre. Non si può utilizzare un valore etico contro un altro».
L’allora centro-destra scelse comunque, con pochi distinguo interni, questa strada: un modo forse per dirsi “diversamente conservatori”.
Di fatto, dopo aver derubricato la dottrina economica liberale a mero manualetto per un risibile contenimento della pressione fiscale, si consumava così anche l’accantonamento di quell’antropologia liberale che non rinuncia a propugnare valori e principi, ma evita di perseguirli in maniera agonistica, in quanto convinta che non possano essere imposti per via autoritativa né regolabili con le sole leggi del mercato e dello scambio.
Perduto dunque qualunque riferimento metapolitico, sono emerse al tempo stesso tutte le lacune degli interpreti principali del centro-destra, divenuti animatori di piazze più vuote di un tempo, conversatori sempre meno brillanti nei talk show, surclassati nell’uso dei social, rinunciatari nella proposizione di un’agenda politica che punti ad essere maggioritaria e abbandoni l’orticello ad esaurimento degli affezionati o dei nostalgici.
Nell’attuale congiuntura mondiale, e italiana in particolare, se è lecito sperare in un riposizionamento di questa cultura politica, occorre che una scelta venga fatta. Si può essere conservatori o liberali, non entrambe le cose, come è accaduto sinora con i vari poli e popoli della libertà.
Essere convintamente dei secondi significa guardare con fiducia alle sfide presenti: sul piano dell’economia (bando al protezionismo), del lavoro (con l’innovazione 4.0), delle relazioni internazionali (il sovranismo è un vicolo cieco), dell’ambiente (per una crescita integrale e non per una decrescita insostenibile), della cultura (investire ad ogni livello nelle eccellenze, senza cedere alla retorica parasindacale merito/disuguaglianza), della questione migratoria (l’accoglienza è il destino dell’Europa, per non morire su se stessa)...
Certo, questo non è un programma da tutti.
Ma può esserlo per tutti, a cominciare da quei “liberi e forti”, come li chiamava Sturzo cento anni fa, che non si rassegnano al populismo illiberale e al suo (mal)costume.
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