Per un po’, quanti tra noi dedicarono parecchio tempo a cercare di comprendere la crisi finanziaria asiatica di vent’anni fa si sono chiesti se la Turchia non stesse per metterne in scena una replica. Sembra che stia accadendo questo. Il copione prevede che tutto inizi con un Paese che, per un motivo o per un altro, è diventato il preferito dei prestatori stranieri e per diversi anni ha sperimentato un afflusso consistente di capitali stranieri. Fatalmente, il debito così contratto è denominato in valuta straniera, non in quella interna (motivo per il quale gli Usa, che in passato hanno assistito a ingenti afflussi di denaro, non sono vulnerabili nello stesso modo: noi prendiamo in prestito in dollari).
A un certo punto, però, la festa finisce. Non importa cosa di preciso provochi lo stop ai prestiti esteri: può trattarsi di eventi interni - ad esempio, la nomina da parte del presidente di suo genero a sovrintendente della politica economica o un aumento dei tassi di interesse Usa - o può trattarsi di una crisi in un Paese diverso che gli investitori considerano, però, simile al tuo.
A prescindere dallo shock, l’aspetto cruciale è che il debito estero espone la vostra economia a una spirale devastante. La perdita di fiducia fa precipitare la valuta, il che rende più difficile onorare i debiti in valuta estera. A sua volta, questo danneggia l’economia reale e sgretola la fiducia, determinando un crollo ulteriore della vostra moneta, e via dicendo.
Ne consegue che il debito estero si manifesta all’improvviso come una percentuale del Pil. La crisi finanziaria degli anni 90 ha coinvolto l’Indonesia quando questa aveva un debito estero inferiore al 60% del Pil, più o meno simile a quello turco all’inizio di quest’anno. Nel 1998, la rupia indonesiana a picco ha fatto arrivare quell’indebitamento al 170% circa del Pil.
Come si pone fine a una crisi così? Se non c’è una reazione politica adeguata, la valuta precipita e il debito quantificato in moneta interna si gonfia a dismisura, fino a quando tutti quelli che rischiavano di andare in bancarotta non ci finiscono sul serio. A quel punto, la valuta debole innesca un boom dell’export e l’economia dà inizio a una ripresa imperniata su eccedenze commerciali enormi (Tutto ciò potrebbe stupire il presidente Trump, che sembra aver imposto tariffe gravose alla Turchia per infliggerle una punizione per la sua valuta debole.)
Esiste un sistema qualsiasi per mandare in cortocircuito questa spirale catastrofica? Sì, ma è complicato. Per ridurre i costi di una crisi è indispensabile un mix di eterodossia a breve termine e di garanzie attendibili di un ritorno a lungo termine all’ortodossia. Occorre fermare l’esplosione del rapporto di indebitamento con una combinazione di controlli temporanei sui capitali per imporre un coprifuoco alla fuga da panico degli stessi e, se possibile, occorre ripudiare parte del debito in valuta estera. Intanto, bisogna predisporre ciò che potrà servire, una volta superata la crisi, a un regime sostenibile dal punto di vista fiscale. Se va tutto bene, poco alla volta la fiducia ritornerà, e alla fine si potranno abrogare i controlli sui capitali.
Nel 1998 la Malesia si comportò proprio in questo modo. La Corea del Sud, con l’aiuto degli Stati Uniti, fece qualcosa di molto simile più o meno nello stesso periodo, esercitando pressioni sulle banche affinché mantenessero le loro linee di credito a breve termine. Dieci anni più tardi, l’Islanda se l’è cavata assai bene grazie a un mix di controlli sui capitali e al ripudio del debito (in senso stretto significa rifiutarsi di accollarsi responsabilità formali per i debiti accumulati dalle banche private).
Anche l’Argentina si è comportata abbastanza bene nel 2002 e per alcuni anni ancora con politiche eterodosse, e ha ripudiato in modo efficiente i due terzi del debito del Paese. Il regime di Cristina Fernández de Kirchner, però, non ha capito quando era arrivato il momento di fermarsi e di tornare all’ortodossia, e questo ha spianato la strada per un ritorno dell’Argentina alla crisi.
È probabile che tale esempio dimostri quanto sia difficoltoso gestire questo tipo di crisi. È indispensabile, infatti, che abbiate un governo flessibile e responsabile a uno stesso tempo, per non parlare della competenza tecnica che deve avere in quantità sufficiente ad adottare misure speciali, e della trasparenza con la quale deve procedere alla loro attuazione senza una corruzione generalizzata.
Tutto ciò non sembra contraddistinguere il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Naturalmente, non sembra contraddistinguere
nemmeno il presidente americano Trump. E, così, è un bene che i nostri debiti siano in dollari.
(Traduzione di Anna Bissanti)
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