La vicenda della nave Diciotti, ancorata nel porto di Catania con a bordo più di 150 migranti cui è stato vietato lo sbarco per decisione dell’attuale Ministro dell’Interno, presenta aspetti inquietanti sia alla luce del senso di umanità, che sempre dovrebbe ispirare i comportamenti di un Paese civile, sia dal punto di vista dei doveri morali connessi al rispetto della dignità di ogni persona umana e della ricaduta sociale e politica, che l’episodio potrà avere sulla nostra comunità nazionale e il suo ruolo fra le nazioni.
Già in una dichiarazione riportata enfaticamente dai media - «è finita la pacchia» - il ministro aveva usato parole del tutto inappropriate di fronte al dramma di tante vite umane in gioco, in fuga da situazioni di privazione, di violenza e di morte. Non si tratta di gente che sta facendo una crociera o di comuni viaggiatori che scelgano di andare da un Paese all’altro: chi è arrivato a Catania sulla Diciotti viene da un salvataggio doverosamente compiuto in mare da uomini della nostra Marina militare.
In gran parte provenienti dall’Eritrea, nazione che ha legami storici con l’Italia, pur pesantemente segnati da forme di duro colonialismo nel passato, quanti sono in attesa sulla Diciotti sono esseri umani in situazioni di fragilità, sofferenza e disagio: tutt’altro che in una condizione di vita piacevole, senza preoccupazioni o problemi, caratterizzata da comodità e benessere, come viene descritta l’espressione “pacchia” nei più diffusi dizionari della nostra lingua. Il linguaggio di chi ha responsabilità politiche gravi dovrebbe essere misurato e rispettoso di tutti, scevro da battute infelici ed espressioni inadeguate, lontane dalla realtà e dannose per la comprensione dei problemi.
La considerazione che si impone è che in questa vicenda la dignità delle persone accolte per giorni e giorni sul ponte della nave, riparate alla meno peggio dal sole e dagli agenti atmosferici, trattenute senza chiare motivazioni giuridiche, sia stata semplicemente calpestata: questo non è degno di una democrazia matura, quale è quella fondata sulla nostra Costituzione repubblicana, ispirata ai principi del cosiddetto Codice di Camaldoli (1943), che sono poi quelli dell’idea di persona, maturata nei dibattiti cristologici del IV e V secolo, fondata sulla convinzione della singolarità, della intangibilità e della libertà di ogni essere umano, dovutegli in forza del semplice fatto di esistere. In termini diretti e spontanei, non pochi si sono chiesti quale sarebbe stato l’atteggiamento di chi ha fatto dichiarazioni così dure nei confronti di quei migranti se al posto di essi vi fosse stata qualche persona a lui cara: il senso di umanità e il dovere morale connesso al rispetto della dignità di ogni singolo essere umano, non si conciliano con le scelte messe in atto e purtroppo sostenute da vari dei nostri governanti, con eccezioni significative e autorevoli.
Da cittadino italiano e da semplice persona umana, oltre che da credente nel Vangelo, consapevole della responsabilità etica connessa anche alle radici ebraico-cristiane della nostra identità culturale e spirituale, ho provato un senso di disagio, fatto di dispiacere e di vergogna, per l’immagine che della nostra convivenza civile veniva così offerta al mondo intero. L’Italia non merita di essere vista come un Paese chiuso all’accoglienza e accecato dall’arroganza: ce lo impediscono la nostra storia, la grandezza della civiltà romana di cui siamo eredi, l’incidenza profonda della fede ebraico-cristiana sul nostro essere e il nostro agire. E se ancora una volta si è potuta lamentare una latitanza delle istituzioni europee, chiamarsi fuori dall’Europa non è certamente la via da seguire: Paese fondatore dell’Unione, l’Italia ha il diritto e il dovere di operare in prima linea per migliorare le politiche europee, specialmente in fatto di migrazioni.
La revisione del Trattato di Dublino è una priorità rispetto a cui il nostro Paese dovrà fare incisivamente la sua parte, nella certezza che un’Europa migliore è garanzia di pace, sviluppo e democrazia per tutti. A chi ci governa chiediamo risposte adeguate, ispirate non all’impulsività o a sentimenti di “pancia”, ma a una riflessione alta di cui continua a darci esempio valido e significativo la più alta carica della nostra Repubblica, il Presidente Mattarella. In tale direzione potranno essere d’ispirazione per tutti le parole di Papa Francesco: «La santità non riguarda solo lo spirito, ma anche i piedi, per andare verso i fratelli, e le mani, per condividere con loro. Le Beatitudini evangeliche insegnino a noi e al nostro mondo a non diffidare o lasciare in balìa delle onde chi lascia la sua terra affamato di pane e di giustizia; ci portino a non vivere del superfluo, a spenderci per la promozione di tutti, a chinarci con compassione sui più deboli. Senza la comoda illusione che, dalla ricca tavola di pochi, possa piovere automaticamente il benessere per tutti» (Al Convegno nazionale della Federazione Maestri del Lavoro in Italia, 15 giugno 2018).
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