L’appuntamento, purtroppo per me, è rinviato. Spero. Già pregustavo di incontrare Cristina Dondi nelle sale prestigiose, austere e magiche della Bodleian Library di Oxford, dove lei è di casa: oltre al piacere di conoscerla di persona e chiacchierare, infatti, ci sarebbero stati i libri (e che libri, aveva selezionato!) a farci compagnia. Dico i libri antichi, ovviamente, che sono al centro della sua vita e per i quali ha “inventato” un sistema di “tracciabilità” assolutamente contemporaneo e innovativo che oggi la fa essere al centro del dibattito della sua disciplina. Ma non solo: cosa del tutto inaudita, lei, studiosa di materiali per “adepti”, per una volta ha comunicato talmente bene la sua ricerca che è “finita” nel circo mediatico: con tenacia e determinazione ha convinto Wall Street Journal, Financial Times, Bbc, Rai che di libri antichi si può parlare, e bene, anche al grande pubblico. E così l’incontro, più banalmente, avviene in un ristorante milanese, mentre è di passaggio alla volta di Venezia, dove è curatrice della mostra (parte integrante del progetto) «Printing R-Evolution 1450-1500. I cinquant’anni che hanno cambiato l’Europa» che si sta per aprire (il 1° settembre) al Museo Correr e alla Biblioteca Marciana e che dimostrerà plasticamente la qualità e quantità del suo lavoro. Ma non mi rammarico dello spostamento: Cristina, che elimina subito le formalità, infatti, si presenta anche con alcuni dei suoi fedeli allievi, tutti giovani ricercatori italiani, che da Oxford, e da questa esperienza, spiegheranno le ali delle loro (si spera altrettanto brillanti) carriere. La “scuola”, certo, è molto buona.
Sorridente, pacata, decisa a farsi capire anche nei passaggi più tecnici guardando sempre negli occhi l’interlocutore, stile britannico e solarità italiana, Cristina Dondi a Oxford ci è arrivata grazie a... un giornale. «Liceo Classico Muratori di Modena, poi storia medievale e paleografia alla Cattolica di Milano», ricorda. «La svolta inglese nasce da un Erasmus a Cambridge nel 1990-91. Durante il dottorato, rispondo a un annuncio sul Guardian: la Bodleiana di Oxford cerca un medievista per lavorare alla catalogazione dei loro 7.500 incunaboli, un progetto in corso guidato da Kristian Jensen, ora capo delle collezioni della British Library. Delle cinque persone chiamate per il colloquio, tre erano italiane. Ho cominciato a Oxford nel maggio del 1996 e non mi sono mai spostata». Non è però il classico “cervello in fuga”, direi: si tratta piuttosto, ed è bello pensarla così, di un’eccellenza italiana prestata a una delle più blasonate università del mondo. Anche per questo, anche se lei non lo dice, l’ambasciatore italiano a Londra, a fine 2017, le ha consegnato l’onorificenza di Cavaliere della Stella d’Italia, conferita dal presidente della Repubblica. «I miei dieci anni in Bodleiana sono stati fra i più felici della mia vita: lo dissi quando lasciai la biblioteca a 40 anni e vale ancora oggi che ne ho 50. Sono stata pagata per scoprire ogni giorno cose nuove. Ma la sfida è renderle rilevanti».
Ecco: il passo successivo, che Cristina Dondi ha sempre avuto molto chiaro è stato quello di non rinchiudere la sua cultura dentro l’accademia ma liberarla fuori. Nel 2010, con i fondi della British Academy, ha ideato, e poi, negli anni, curato - assieme a un team tutto italiano -, il «Material evidence in Incunabula (Mei)», un database in grado di tracciare la diffusione e l’uso dei libri stampati nella seconda metà del Quattrocento, oggi sparsi in circa quattromila biblioteche fra Europa e Usa. Il progetto ha ricevuto lo European Research Council Consolidator Grant per capire come la società di fine ’400 ha reagito all’innovazione tecnologica: è un passo verso l’integrazione fra cultura umanistica e sapere scientifico-tecnologico. Si infervora, Cristina, parlando dei libri. «La prima cosa che sempre ammiro è la loro forza: sono oggetti sopravvissuti per oltre 500 anni e ancora in condizioni spesso eccellenti: la carta, fatta di stracci, è migliore di quella dei periodi successivi, i colori delle decorazioni sono ancora sgargianti, gli inchiostri chiarissimi. Poi c’è il fattore umano, le tracce che le persone che hanno usato il libro nel tempo lasciano su di esso. La domanda davanti al libro è: quali storie troverò, cosa mi racconteranno?». La risposta è, anche, nella mostra veneziana che documenta l’impatto della rivoluzione della stampa sullo sviluppo economico e sociale della prima Europa moderna e nelle migliaia di dati raccolti da un network internazionale - coordinato dal progetto 15cBooktrade dell’Università di Oxford - in anni di rigorose ricerche. «Ho ricevuto due milioni di euro. I fondi coprono i salari dei tre ricercatori post-dottorato, e di un dottorando, per 4 anni, quello di un amministratore part-time, e il mio, per 5 anni. Poi il salario di un programmatore alla Bodleiana per un anno, di un ingegnere dell’e-Research Centre di Oxford per un anno (sviluppo della visualizzazione scientifica), di altra programmazione (database Mei); dei costi per far venire a Oxford studiosi per un ciclo annuale di seminari e per l’organizzazione del grande convegno che si terrà a Palazzo Ducale a Venezia i prossimi 19-21 settembre, per viaggi legati alla formazione e conferenze».
L’idea è stata semplice, eppure, potenzialmente (almeno per i risultati) rivoluzionaria. «Ho sviluppato una nuova maniera di seguire il percorso dei libri. Associando coordinate spaziali e temporali a ogni precedente possessore sappiamo il movimento dei libri e delle idee che i libri contengono». Le implicazioni di questa metodologia per il patrimonio culturale italiano sono enormi: «L’Italia conta il numero più consistente di biblioteche storiche al mondo. Ed è il Paese che ha prodotto e disseminato, per cause diverse, il suo patrimonio librario in tutto il globo. Stiamo ricostruendo il contenuto di collezioni italiane disperse nel corso di secoli e oggi disseminate in migliaia di biblioteche e musei europei e americani». Un pezzo concreto di anima italiana che ha formato il mondo moderno. Per portare avanti la sua missione, Cristina, lo dice con un grande sorriso, non poteva fare a meno, prima di tutto, «dell’appoggio di una squadra eccezionale, Maria Alessandra Panzanelli Fratoni, Geri Della Rocca de Candal, Matilde Malaspina, Birgit Mikus, Sabrina Minuzzi», poi della tecnologia per la gestione e visualizzazione dei dati e di un network di centinaia di bibliotecari-ricercatori. Coordina il lavoro di molte persone, in diversi Paesi, sul lungo periodo. Nessuno studioso avrebbe potuto farlo da solo, e solo una collaborazione internazionale, ecumenica, può renderlo realtà. La lezione che ne trae è semplice. «Una società funziona quando le innovazioni sono condivise; un’élite ad alta velocità non cambierà mai in meglio una società nel suo insieme, se non ci sono valori condivisi. Io ci arrivo per la strada della storia, ma ci sono fior di economisti che son arrivati alle stesse conclusioni»: cita il Nobel per l’Economia Richard Thaler e il discorso di Ben Bernanke «When growth is not enough».
Su un punto è categorica. «Sta a chi fa ricerca condividere e spiegare il senso di ciò che fa. A tutti, con vari registri. La comunicazione è fondamentale, se non posso spiegare a mia madre, al giornalista, al biologo o al banchiere quello che faccio, l’errore è mio. Questa è stata la più importante lezione imparata nel Regno Unito, parlare chiaro, breve, e semplice. Al colloquio per il Grant avevo dieci minuti per presentare il mio progetto a una commissione di venti storici, persone intelligenti ma non competenti del mio settore. Far capire loro l’importanza della ricerca che proponevo rimane una grande soddisfazione e una grande lezione». A fine pasto, le chiedo che differenza trovi tra Italia e Inghilterra e se, per caso, non abbia nostalgia dell’Italia. Vexata, e inutile, quaestio. «Credo di aver fatto più per l’Italia da fuori che se fossi rimasta. E continuo a farlo, lavoro in armonia con tante biblioteche, centri di ricerca universitari e le istituzioni ministeriali centrali. Ma stare fuori mi ha dato totale indipendenza dalle logiche interne, e quindi potere di fare o dire quello che ritenevo opportuno, e di lavorare con chi dimostrava di condividere la stessa visione: collaborativa, internazionale, interdisciplinare». Uno dei suoi allievi rivela che, invece, in Italia vuol tornare: aiuterà i giovani ricercatori italiani a partecipare, e vincere, se si può, i fondi di ricerca europei. Chiedo a Cristina, alla fine, quale sia esattamente la materia che insegna a Oxford. La risposta mi lascia di stucco. «Ancora non ho una cattedra, sono Senior Research Fellow al Lincoln College». Il sorriso è disarmante, la fiducia con la quale guarda al futuro anche.
Qualche giorno dopo l’incontro, ricevo una sua mail. «L’Università mi ha conferito il titolo di Professor of Early European Book Heritage, cioè dell’antico patrimonio librario europeo. Riconoscimento appoggiato da un numero sostanzioso di colleghi europei e americani che hanno spiegato l’importanza dell’operazione che porto avanti. È un “ministero senza portafoglio” ma è un primo importante gradino nel riconoscimento di una disciplina e metodo di lavoro che vogliamo (corsivo mio, ndr) rendere stabile». Pensa al noi, ai suoi allievi, al futuro del progetto. A questo punto non ho dubbi che il fatale appuntamento con i libri è lì: dopo la mostra veneziana. I libri antichi vibrano ancor di più: c’è qualcuno che li ama e li fa diventare storia pulsante dell’oggi. E ha un motivo in più per festeggiare, per sé, per la sua ricerca e, perché no?, per la cultura italiana che è capace, ancora, di un livello che pochi altri al mondo hanno. In tempi di squalifica del sapere, la parabola di Cristina Dondi e dei suoi ragazzi mi sembra una storia a lieto fine, di quelle belle, che solo i libri sanno raccontare. E che non solo a Oxford hanno voglia di leggere: sarebbe bello che qualcuno di loro portasse in Italia il suo insegnamento, che non è certo quello che si fa da una cattedra, per quanto prestigiosa, e raggiunta, finalmente, con merito.
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