Lo dichiaro subito: Massimo Bottura, per me, è il più grande chef al mondo. Lo dichiaro così, con la faziosità non razionale di chi pensa che nessun altro attaccante italiano degli anni 70 sia paragonabile al numero 11 del Torino Football Club Paolo Pulici e che Fernand Braudel sia il maggiore storico europeo, che Philip Roth sia as-so-lu-ta-men-te il numero uno nella narrativa contemporanea e che nessun saggista rappresenti la nostra società come Vasco Rossi nelle sue canzoni.
Sono all’Osteria Francescana di Modena, terza stella Michelin nel 2011 e primo posto nella classifica World’s Best Restaurant nel 2016 e nel 2018. Entro nella cantina, dove un’aria condizionata fredda ma non assassina rende l’ambiente piacevole, mentre fuori il caldo stringe alla gola. Bottura è vestito con un paio di jeans e una maglietta nera, come è nera più di una parte della barba che, sul viso ossuto, ha ampie porzioni già sbiancate. Nel tempo triste senza più filosofi che ha eletto i cuochi televisivi a maestri del pensiero, Bottura non ha nulla del guru e ha poco di televisivo.
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Bottura, 55 anni, versa a entrambi un bicchiere di acqua minerale gassata: «A me piace molto, sento il salato dell’acqua». La Francescana, aperta nel 1995, è il capitolo più noto di una esperienza - e di un senso della inclusione per il cibo - che ha gli altri passaggi nella Franceschetta - sempre a Modena, la sorella minore e a prezzi più contenuti - e nei Refettori destinati ai meno abbienti di Milano e Parigi, Rio de Janeiro e Londra, Bologna e Modena.
Il suo stile di cucina è insieme terragno e astratto. Le sue radici sono nella quotidianità. «Mia madre Maria Luigia era una insegnante, figlia del Po, la sua famiglia aveva posseduto un caseificio sulla collina. Mio padre Alfio aveva una piccola impresa che prima commerciava in legno e carbone e poi in kerosene e petrolio. Eravamo in cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre ci ha insegnato a stare a tavola. A tavola si sognava, si litigava, si faceva la pace. La sera ci dava una tazza di latte con lo zucchero, il caffè avanzato e il pane rimasto dal giorno prima. Non si sprecava niente: la prima regola di questi posti, la prima regola della mia cucina».
Abbiamo iniziato a parlare da poco, quando un suo collaboratore entra nella cantina: «Massimo, ti ricordi l’impegno con i ragazzi del Tortellante?». «Sì, certo. Vieni Paolo?». Sicuro che vengo. Passiamo dalla cucina - dove ogni cosa è in equilibrio e gli odori e i colori si sovrappongono e si ricompongono, una tensione rapida ma non nevrotica a fare da collante - e usciamo in strada. Un gruppo di ragazzi, fan dei One Direction, si avvicina: «Scusi, ma è vero che qui c’è Harry Styles?». «Qui è tutti i giorni così», dice Bottura con l’adesione entusiasta alla vita che hanno gli emiliani anche quando la stanchezza del lavoro rischia di rendere tutto nervoso e a scatti. Saliamo sulla Maserati - «Sergio Marchionne era un amico e un grande uomo, parlavamo spesso della filosofia slow food and fast cars, cibo lento e macchine veloci» - e ci spostiamo nell’ex mercato ortofrutticolo di Via Ciro Menotti, dove sorgeranno i laboratori del Tortellante, la onlus fondata a Modena per dare una occupazione - appunto, la produzione di tortellini - ai ragazzi che, portatori di autismo, hanno un problema urgente oggi - all’uscita dalle superiori - ed enorme domani, quando invecchiando perderanno i genitori. La fondazione della Saint-Gobain ha assegnato al Tortellante un contributo. «Nessun tortellino è uguale all’altro. Nessuno di noi è uguale agli altri. Vale anche per questi ragazzi», dice Bottura. Che ha assunto uno di loro, Milen, alla Francescana. «Milen è in panetteria. Il venerdì sera prepara la pasta della pizza. E il rigore che ha nella pulizia... lo insegna lui agli altri». Risaliamo sulla Maserati. «Milen...». Alla fermata dell’autobus, c’è proprio lui. «Ciao, Massimo...», si sbraccia Milen.
Tornati alla Francescana ci mettiamo a tavola, per un pranzo che sarà “accompagnato” da birra di castagne, recioto e lambrusco. Iniziamo con la aula croccante in carpione, il macaron di coniglio alla cacciatora e un piccolo snack al baccalà mantecato. Bottura ha fuso la cucina del territorio italiana di Modena e la scuola francese. Nella prima trattoria a Campazzo, aperta nel 1986, in cucina stava una signora di nome Lidia: «Era una rezdora, una casalinga che si occupava dei campi. Era semicieca». Poi, il lavoro con due maestri francesi come Georges Coigny e Alain Ducasse, due personalità ammalianti e fortissime: «Un giorno Ducasse mi chiese: “Hai imparato?”. Io gli mostrai il mio quaderno dove avevo appuntato religiosamente ogni cosa. Lui lo strappò in mille pezzi e mi disse: “Ora sei pronto a camminare con le tue gambe”. Per la rabbia non gli parlai per due anni».
Passiamo alla sogliola mediterranea, che - nella fusione tra la sogliola alla mugnaia, al cartoccio e alla crosta di sale - ha un riferimento estetico nelle plastiche lavorate con la fiamma ossidrica da Alberto Burri. «L’amore per l’arte contemporanea - dice - mi è cresciuto dentro grazie a mia moglie Lara Gilmore. Ci siamo conosciuti a New York, nel 1993. È nata prima una grande amicizia e poi un grande amore. Oltre all’arte e al teatro, mi ha fatto capire che dovevo spiegare bene il significato, l’ispirazione e i riferimenti popolari e culturali dei miei piatti». La capacità di astrazione si innesta in Bottura su una biografia dell’anima contadina: «Mio padre aveva la severità e le durezze degli uomini rappresentati nell’Albero degli zoccoli da Ermanno Olmi. Gli uomini della valle del Po sono stati, per secoli, così. Quando decisi di fare il cuoco, lui non era d’accordo e non ci parlammo per due anni. Nel novembre del 2011, ho preso le tre stelle Michelin. Lui era molto felice. È morto poco dopo, nel febbraio del 2012».
La concettualizzazione non fredda ma calda e l’immersione nella Storia dei piatti emergono in “Un’anguilla che risale il Po”. «Nel 1598 gli Estensi abbandonarono Ferrara e trasferirono la capitale a Modena. Spostare la corte fu un viaggio che durò settimane e settimane. Ho immaginato quel viaggio. E ho elaborato questo piatto». L’anguilla di Comacchio, la polenta del Veneto, la mela campanina di Mantova. La corte, 520 anni fa, risale il Po. E lo stesso fa l’anguilla. Incontrando tutti questi elementi. Entrambe - la corte e l’anguilla - approdano nelle campagne intorno a Modena, dove trovano la saba, il mosto cotto. E, infine, arrivano in Canalchiaro, uno dei canali - oggi interrati - che per secoli hanno collegato la città al Po.
Passiamo a due suoi classici come “Autumn in New York, September in Modena” e le “Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano”: 12, 24, 36, 48 e 50 mesi, cinque idee del tempo in cinque forme concettuali e materiali (demi-soufflé, salsa, galletta, spuma, aria). E il discorso fra noi va sul terremoto del 2012, quando Bottura mise al servizio della sua comunità la sua celebrità, nella campagna per la vendita delle forme di parmigiano danneggiate: «Al Salone del Gusto di Torino di quell’anno proponemmo il piatto riso, cacio e pepe. Il riso era della Lombardia del Sud, anch’essa colpita dal terremoto. Il cacio era non il pecorino ma il nostro parmigiano. Nei caseifici nessuno perse il lavoro».
La mamma Maria Luigia e Lidia la rezdora semicieca non tolleravano gli sprechi. E, nel mondo, lo spreco del cibo è significativo. Racconta Bottura: «Secondo la Fao, un terzo del cibo prodotto viene buttato. È inaccettabile. Anche per questo la mia adesione all’Expo di Milano, che ha lavorato su questo, è stata convinta. E anche i Refettori non sono un gesto di carità. Ma sono progetti culturali. Il germe di quel grano è nella nostra vita. Pensa ai passatelli: nascono da briciole di pane avanzato che non viene buttato. È il piatto che preparo a casa la sera a mia moglie Lara, a mio figlio Charlie e a mia figlia Alexa».
A questo punto, arrivano i primi: «La parte croccante della lasagna»(l’angolo delle teglie a cui aspirano tutti i bimbi), i tortelli con ricotta ed erbette e le tagliatelle al ragù. «Posso? Guarda qui»: Bottura dispone i sette tipi di tagli di carne del ragù sul bordo del mio piatto. Poi - di nuovo, «Posso?» - le assaggia invitandomi a fare lo stesso, secondo il suo binomio dell’ordine e della condivisione.
Quindi, ecco il triplo tributo al maiale, uno dei simboli di questa terra con “This little piggy went to the market”, il maialino da latte morbido e croccante e “Beutiful sonic disco of love and hate”, l’evocazione di un’opera di Damien Hirst con un pezzetto di cotechino e i colori degli avanzi - di nuovo loro - della verdura.
Fra i numerosi dolci, c’è “Oops! Mi è caduta la crostata al limone”: «Il nostro staff in cucina è guidato da Davide Di Fabio, abruzzese, e da Takahiko Kondo, giapponese. Una sera, Takahiko ha fatto cadere una fetta di crostata di limone. Una piccola silenziosa esplosione, materiale ed emotiva. Soprattutto per uno come lui che ha il culto dell’ordine e della precisione. Ma, anche, un risultato involontario di grande fascino per l'estetica e per il significato. Da qui l’idea del piatto».
Alla fine del pranzo, dopo il caffè, assaggiamo un altro poco del cocktail Artemio - lambrusco di Sorbara e ghiaccio, succo di amarena e amarene candite - che abbiamo bevuto all’inizio. E, così, fra il succo di amarena e le amarene e il vino ti sembra di tornare a quando, da bambino, all’improvviso diventi adolescente, capisci che le bambine sono ragazze e che le bibite possono cedere il passo all’alcol. È, in fondo, la fine dell’età dell’innocenza. Succede con la grande letteratura, il grande cinema, la grande arte. Succede con la cucina.
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