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Un asse con Parigi per affrontare la crisi libica

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quarta sponda

Un asse con Parigi per affrontare la crisi libica

(Reuters)
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Quelle due bandiere, il tricolore e le stelle d’oro in campo blu d’Europa, che sventolano sopra una Tripoli bombardata, in fondo riempiono d’orgoglio. Non è proprio una nostra prerogativa storica rimanere in campo quando le cose si fanno difficili.

E fra tante mediocrità e sottigliezze burocratiche di Bruxelles, anche la Ue fa una bella figura sopra l’edificio bianco dell’ambasciata d’Italia.

Tuttavia, tenere aperta a ogni costo la nostra sede diplomatica, è bello ma non basta per affermare di avere una politica per la Libia. Fino a ora la nostra è stata una nemesi più che una strategia. Per noi è sempre colpa della Francia: perché nel 2011 aveva bombardato il regime e fatto cadere Gheddafi; perché l’anno scorso ci hanno rubato la scena, convocando nel castello di La Celle-Saint-Cloud, Fayez Sarraj e Khalifa Haftar, contro la nostra partecipazione; perché hanno preteso di organizzare elezioni in Libia contro la nostra volontà.

Oltre che controllare e pacificare la Libia, Gheddafi era anche un brutale dittatore. Il vertice dell’anno scorso ha dimostrato che noi ci eravamo fissati forse troppo sul solo Sarraj, mentre i francesi erano riusciti a mettere insieme i due protagonisti. Anche per una questione di autorevolezza. Questa prerogativa non la costruisce un governo di centro-sinistra né uno giallo-verde in un’intera legislatura: occorrono decenni, forse secoli, e una politica estera bipartisan, consistente con un’idea d’interesse nazionale.

In ogni caso le nostre critiche all’arroganza francese erano più che giustificate: gli eventi di Tripoli dimostrano il velleitarismo anche della loro idea di portare i libici a votare in autunno. Ma rimane il fatto che una gran parte della nostra politica sulla Libia si fondi sul quel mantra auto-giustificativo: è colpa dei francesi. Sta accadendo anche sulla questione dei migranti.

Stabiliti i nostri peggiori difetti – l’arroganza dei francesi e il vittimismo degli italiani – cosa si può fare affinché la Libia non esploda del tutto e non riprendano massicci gli sbarchi dei profughi, già torturati dai loro aguzzini: ora anche tra due fuochi del governo e delle milizie libiche? Perché è evidente che oltre all’Egitto che è di parte (quella di Haftar), Francia e Italia possono fare qualcosa, se la fanno insieme. I margini per trasformare da divergenti in comuni i nostri interessi, ci sono. Inutile attenderci iniziative dall’Europa. Sulla Libia non c’è la Ue, ma alcuni Paesi della Ue. La partecipazione dei membri dell’Unione ai problemi mondiali è una questione più geografica che di solidarietà. Putin è temuto da baltici e polacchi, i Paesi nordici non hanno preoccupazioni per la Libia, quelli di Visegrad non vogliono sentir parlare di profughi. In fondo la Ue – un altro buon pretesto per nascondere le carenze italiane – ha colpe relative: è solo quella che vogliamo che sia.

Anche l’idea avanzata dal presidente del Consiglio Conte di creare “una cabina di regia” libica con gli americani, è piuttosto evanescente: è stata pensata contro i francesi più che per i libici. Già nel 2011 Barack Obama aveva guidato le operazioni contro Gheddafi «from behind», cioè da lontano. L’interesse di Donald Trump per la vicenda libica è sotto lo zero termico. Se il governo italiano avesse anche il tempo di affrontare la politica estera mediterranea per quello che è, non per cercare sodali alla sua idea del “cambiamento”, scoprirebbe che riguardo alla Libia non ci resta che la Francia. È difficile ammetterlo per tutti gli italiani: ancora di più per i ministri che con Macron sono già passati agli insulti.

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