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Ridiventare «operai del creato»

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Ridiventare «operai del creato»

(Adobe Stock)
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Il dialogo meditato che Guido Gentili e Papa Francesco hanno intrecciato su queste pagine, lo scorso 7 settembre, merita di essere posto tra gli impegni di responsabilità e di rinascita di una società civile degna dell’uomo, che il Paese - scosso da troppi proclami - sembra smarrire.

Vorrei attenermi ai temi evocati nella «piccola Enciclica» (che del resto si inserisce nel solco tracciato da Paolo VI con la Popolorum progressio, 1967, e da Leone XIII nella Rerum novarum, 1891) e in particolare alla nozione di «lavoro»; Papa Francesco così definisce: «Inoltre lavorare ha un alto significato spirituale, in quanto è il modo con il quale noi diamo continuità alla creazione rispettandola e prendendocene cura».

Il lavoro dunque non è solo corrispettivo al salario, né il salario la misura ultima del lavoro; il lavoro umano prosegue l'opera della creazione e dovrebbe incrementarne il senso e la bellezza: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. [...] Allora Iddio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro» (Genesi, I, 31, II, 1-2). Il lavoro collabora insomma a ritessere il creato: la sua finalità non è il salario, ma l'opera compiuta, da potersi contemplare, sostando nel riposo, come bella e buona.Qui la storia delle parole aiuta: nel XX secolo e nell'inizio di questo XXI, è largamente prevalso il termine «lavoratore» su quello storico di «operaio», operarius, colui che contribuisce o porta a termine l'«opera».

Il lavoro si è avvilito, perché chi vi contribuisce non vede più l'opera. Il lavoro è segmentato, parcellizzato, con processi largamente automatizzati, sì che dal lavoro quotidiano non emerge l'opera ma dei “pezzi” che magari verranno assemblati altrove.Quando nel 1915 Giovanni Agnelli affidò all'ingegner Giacomo Matté-Trucco, a Francesco Cartasegna e a Vittorio Bonadè Bottino, con l'intervento poi di Ugo Gobbato, il progetto del Lingotto, la fabbricazione dell'auto iniziava da piano terra e via via saliva, nelle componenti e nella finizione, ai piani superiori, sino ad arrivare - per il collaudo - alla pista, che fungeva da culmine e verifica. L'“operare” aveva un senso ascensionale (accentuato dalle rampe elicoidali), e il compimento era da tutti contemplabile al sommo, vero «fastigio» dell'opera.

Pochi anni prima, del resto, Antonio Fogazzaro aveva raccolto questo anelito, dell'operare verso l'alto, nelle Ascensioni umane, 1899.È del resto un nesso antico, specialmente nell'Italia dei saperi artigianali (che hanno fatto il nostro prestigio, e ancora fanno, in Europa e nel mondo): l'“andare a bottega” era iniziazione e partecipazione all'opera; nell'atelier di un pittore, gli allievi partecipavano cominciando da tratti, di vesti o di paesaggio, più semplici, ma “entravano” subito nell'opera stessa.I processi produttivi contemporanei, spesso robotizzati, non danno più questo senso di partecipazione all'opera e ancor meno quello di continuare a ritessere, rammendare, ornare il creato (anche per questo oggi la natura è maltrattata, perché non si percepisce più il fatto che si opera in essa e con essa). Natura magistra, ha scritto Santiago Calatrava e così ha operato, esaltando nelle sue opere le nervature che madre Natura ci offre nelle forme del creato.Come ridivenire «operai del creato»?

Restituire senso all'opera (quale che essa sia) è primario: essa non è solo merce, non è retta da materia da manipolare e ricavo da ottenere; far conoscere la finalità dell'opera è altrettanto essenziale: un addetto certo porrà più cura se vedrà che anch'egli “pon mano” a un fine eticamente giustificato. L'opera così iniziata e motivata allevia la fatica che essa costa: ognuno patirebbe meglio posture anche innaturali del corpo, se il fine fosse la volta della Sistina...Sembra un paragone utopico: ma molti imprenditori italiani, oggi, da Brunello Cucinelli in Solomeo, ad altri nel Parmense e altrove, restituiscono, in vario modo, il lavoro all'«opera»: non solo nella qualità del manufatto stesso ma nella corrispettiva armonia dei luoghi in cui si produce (fabbriche, case, scuole, teatri, inseriti a loro volta in una natura ritessuta). Occorre uscire da un abbaglio che fu marxista e poi capitalista: e cioè che la coercizione del lavoro avrebbe stimolato le masse a ribellarsi (marxismo) o a meglio domarle (capitalismo di sfruttamento, ancora ben presente nel pianeta).Produrre meglio è possibile: se la finalità non è il guadagno soltanto, ma soprattutto l'«opera»; e in questa direzione l'Italia è, occorre dire, all'avanguardia; il modello va esteso, incrementato, fatto conoscere ai giovani. Le “gite” delle scuole non siano solo ai musei, ma alle fabbriche “del buono e del bello”: si aiuterà la crescita civile del Paese. E la collaborazione scuola-lavoro si orienti agli antichi mestieri; governare la mano, trattenere il gesto, misurare lo sforzo, è atto di disciplina e di conoscenza di se stessi. Più ci “si governa”, meno ci saranno “scarti”, come direbbe Papa Francesco.
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Carlo Ossola

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