Le statistiche sull’impegno dell’Italia in ricerca e formazione ci vedono, in genere, tra gli ultimi in Europa (minori investimenti, minor numero di laureati, soprattutto scientifici, meno fondi per la ricerca di base e applicata …) e ben lontani dalle altre grandi economie europee.
Ci sono due dati tuttavia che sembrano in controtendenza. Siamo terzi in Europa in quanto a numero di progetti finanziati dallo European Research Council per giovani ricercatori (Erc starting grants) e siamo al secondo posto in quanto a studenti partecipanti al programma di scambio Erasmus. Vediamo meglio di che si tratta.
A conclusione della call del 2017, i giovani ricercatori italiani hanno ottenuto il finanziamento di 43 “starting grants”, un bel numero, che li piazza direttamente in scia dopo tedeschi (65) e francesi (48). Un posizionamento di tutto rispetto, che testimonia creatività e capacità di mettersi in gioco con proprie idee in un contesto estremamente competitivo. Si pensi che il tasso di successo complessivo è di circa il 13 per cento.
L’altra statistica in cui siamo ai primi posti riguarda la mobilità europea dei nostri studenti. L’Italia è quarta nella partecipazione al programma Erasmus con circa 400mila studenti, il 10% del totale, che hanno trascorso da tre a dodici mesi in uno dei circa seicento atenei europei o extra europei, frequentando corsi e sostenendo esami riconosciuti nelle loro carriere. Il programma Erasmus prevede un contributo finanziario e garantisce agli studenti ospitati lo stesso trattamento degli studenti della sede ricevente.
Si direbbero dati positivi. La prospettiva tuttavia cambia se analizziamo questi risultati in maggiore dettaglio.
Dei 43 starting grants vinti da italiani solo 16 vedono università e/o centri di ricerca italiani come “host institution”, cioè come luoghi scelti per portare avanti i progetti e quindi incardinare i finanziamenti. Gli altri 27 starting grants vinti da italiani verranno utilizzati in altri Paesi. In altre parole, la maggioranza dei progetti italiani che hanno ottenuto uno “starting grant”, al cui finanziamento l’Italia contribuisce come partner europeo, verrà portata avanti in altri Paesi. L’Italia è infatti solo ottava in quanto a scelta come “host institution”, mentre gli italiani sono terzi in quanto a progetti vinti.
Anche il dato sulla mobilità degli studenti va analizzato. A fronte dei 41mila studenti “outgoing” nel 2016-17 quelli “incoming” cioè che hanno scelto una università italiana per il loro soggiorno di studio Erasmus sono stati circa 22mila, poco più della metà. Eppure che il nostro Paese e le nostre università e le nostre città, in quanto ad attrattività, non hanno nulla da invidiare a tante sedi straniere, anzi.
Riassumendo:
a) I nostri ricercatori sono preparati, si mettono in gioco, hanno idee e sono idee buone che superano bene le valutazioni internazionali. A fronte di questo, le condizioni per mettere a frutto l’investimento nella loro formazione e la loro creatività si trovano più facilmente fuori dall’Italia.
b) I nostri studenti affrontano volentieri esperienze di studio all’estero, dove seguono corsi e spesso svolgono tesi e allacciano rapporti che frutteranno a tempo debito. L’Italia tuttavia, nonostante la reputazione delle nostre università e della sua “social life”, non ha la stessa capacità di attrazione.
Perché questi due apparenti paradossi?
Possiamo rispondere a questa domanda con l’ennesima analisi dei ritardi del nostro sistema: poca meritocrazia, laboratori insufficienti per didattica e ricerca, complessità burocratica nella gestione dei finanziamenti, monolinguismo dei nostri corsi, scarsità di alloggi e strutture di supporto per gli studenti ecc..
Oppure possiamo tentare con la (consueta) autocommiserazione: è colpa di sprechi, burocrazia, cattivi governi, baronie universitarie, ottusità del mondo imprenditoriale, eccessiva sindacalizzazione ecc..
Volendo possiamo anche scegliere l’autoironia: siamo un Paese “generoso” contento di formare ottimi studenti e ricercatori e di metterli nelle condizioni migliori per operare fuori dal Paese e nel vasto territorio dell’Europa.
Quale che sia la risposta, resta l’osservazione sperimentale: siamo poco attraenti per chi vuole fare ricerca o per chi vuole condurre qui una esperienza di internazionalizzazione. Per di più immettiamo risorse nel bilancio europeo senza riuscire a intercettarne il ritorno, e non perché le regole del gioco sono decise da altri (come qualcuno pensa), ma perché non siamo in grado, come sistema Paese, di sfruttare il nostro stesso investimento.
È ora di decidere se ci interessa attrarre anche menti brillanti, nostre o di altri Paesi, e non necessariamente europei, creativi e capaci anche di procurarsi le risorse per portare avanti le loro ricerche, oppure se vogliamo essere attraenti solo per il turismo internazionale (e per l’immigrazione più disperata). Sembrerebbe una scelta obbligata, ma richiede atti conseguenti.
© Riproduzione riservata