Al centro della grandiosa ricostruzione della crisi globale compiuta dallo storico Adam Tooze (Lo schianto 2008-2018, si veda anche la recensione in pagina) vi è il gioco di interdipendenze creatosi fra le diverse aree mondiali, con l’emergere dei profondi legami esistenti tra di essi. Un’interazione che è valsa a propagare la crisi, moltiplicando la sua portata su tutti i settori della vita economica e sociale. Tooze, in particolare, pone enfasi sull’integrazione stabilitasi fra America ed Europa, sottolineando il suo apporto all’ampiezza e alla capacità di penetrazione della crisi. Aggiunge tuttavia che da principio gli europei non ne ebbero la consapevolezza, sottovalutando i costi della caduta recessiva per la stessa economia reale.
Se è vero che all’inizio molti negarono l’entità del contagio, va detto che da subito serpeggiò un senso di minaccia radicale incombente non solo su banche e finanza, ma sul sistema delle imprese, anche e forse soprattutto nelle sue punte più innovative. Chi scrive conserva un ricordo molto netto del clima che si respirava nelle giornate più cupe dell’autunno del 2008. Per esempio, ha una memoria indelebile dello spettro del credit crunch (evocato in quel frangente da una famosa copertina dell’Economist, raffigurante una figura esitante dinanzi allo sbriciolarsi del ciglio di un burrone) che dominava le preoccupazioni dei presenti a un incontro tenutosi nella sede torinese del comitato territoriale di una grande banca italiana. Tra i partecipanti c’era uno dei più brillanti imprenditori piemontesi, Gianfranco Carbonato, allora come adesso alla guida di Prima Industrie, un’azienda con una posizione di spicco nel settore delle macchine per il taglio laser dei metalli. Essa era emersa da quel bacino delle medie imprese dinamiche, segnalato dalle elaborazioni di Mediobanca come la componente più vivace e in espansione del nostro sistema delle imprese.
Carbonato e Prima Industrie avevano appena portato a termine un’acquisizione in grado di cambiare il passo dello sviluppo aziendale, rilevando un’impresa finlandese, Finn-Power, che avrebbe conferito un respiro realmente globale al business. Ma l’indebitamento per concludere l’operazione era stato elevato, ciò che in quello scenario, positivo soltanto pochi mesi prima e di colpo fattosi tremendamente oscuro, costituiva una pesantissima incognita, tale da mettere a repentaglio la strategia.
A distanza di dieci anni Prima Industrie ha vinto pienamente la propria scommessa e ora è una multinazionale a pieno titolo, dopo aver raddoppiato il fatturato e consolidato i propri terminali negli Stati Uniti, in Cina e in Europa.
È evidente, tuttavia, che un simile percorso virtuoso non rappresenta affatto l’esperienza comune delle imprese industriali italiani, che hanno pagato la crisi con una drammatica polarizzazione. Rispetto a dieci anni fa, si è scavato un solco tra di esse, che divide oggi quelle che ce l’hanno fatta e si sono assicurata una solida proiezione nel mercato internazionale da quelle, ben numerose, che arrancano alla ricerca di una via d’uscita da uno stato di difficoltà diventato endemico. Si intravede una corposa area grigia, entro la quale lottano aziende che hanno la possibilità di compiere una svolta, ma che nello stesso tempo stentano a dotarsi di tutti i mezzi necessari.
Eppure, fra il 2008 e il 2009, molti hanno ripetuto che le basi manifatturiere dell’economia italiana erano solide e che ci ponevano al riparo dagli urti più dirompenti della crisi. Perché allora non è andata così? Si dirà che la polarizzazione era già, almeno in parte, latente, testimoniata dal processo di differenziazione in corso all’interno della nostra manifattura. Ma la successiva e progressiva divergenza è stata esasperata dalla distanza tra le politiche monetarie che si sono attuate sulle due sponde dell’Atlantico. Da noi, per arrivare all’impegnativa affermazione di Draghi sul «whatever it takes» della Bce, si sarebbe dovuto aspettare fino al luglio 2012, laddove in America la politica espansiva era già in atto da tre anni, con risultati visibili.
Ecco, se fosse stato il predecessore di Draghi, Jean-Claude Trichet, a usare quelle parole nel 2009, l’Italia e le sue imprese si sarebbero in parte risparmiate la lunga traversata nel deserto di questi anni. Di sicuro avrebbero dovuto affrontare il cammino verso un riassetto tecnologico e organizzativo indifferibile, ma l’avrebbero fatto nel contesto di una transizione più graduale e meno traumatica, con il supporto di una domanda interna meno penalizzata, in condizioni non altrettanto aspre. Invece abbiamo finito per perdere segmenti di apparato produttivo che avremmo potuto conservare. Durante l’ultimo anno la nostra capacità industriale si è venuta parzialmente ricostruendo. Ma le sue prospettive appaiono di nuovo fragili e precarie. Semmai dovesse riaffacciarsi una nuova caduta recessiva, potrebbe finire ancor peggio che nel recente passato. Una buona ragione non indugiare negli atteggiamenti inutilmente rischiosi degli ultimi giorni.
© Riproduzione riservata