Una malattia grave, che dalla finanza si è trasmessa alla manifattura e che, dal 2008, si è espansa alla politica. E, per la quale, sono state approntate cure diverse. Negli Stati Uniti e in Europa. Con gli Stati Uniti epicentro della diffusione del morbo. Ma, anche, ospedale da campo in cui si sono approntate le prime - urgenti - terapie. Le quali, però, potrebbero non funzionare.
Il saggio di Adam Tooze, Lo schianto. 2008-2018: come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo (Mondadori), ci dice due cose: una politica-economica e una storico-culturale. La prima cosa - quella politica-economica - è che la communis opinio, secondo la quale le cure americane sarebbero state più efficaci rispetto alle cure europee, potrebbe essere non corretta. La seconda - quella storico-culturale - è che, forse, è finita l’egemonia delle microanalisi ultraquantitative e che, a fronte di fenomeni tanto complessi e a svolte così drastiche nel percorso della Storia, tornano a essere particolarmente qualificate e utili le ricostruzioni e le interpretazioni - non importa se storiche o economiche, politologiche o sociali - di lungo periodo e di largo respiro.
Nella sua analisi, che è comparativa e multipolare, Tooze - inglese che insegna alla Columbia University - giudica corretta la politica della Banca centrale europea e non confonde il piano dell’unione finanziaria con il piano dell’unione politica, evidenziando le ragioni della disunione della Unione europea in una incapacità dei singoli Stati di autoriformarsi e di aderire al progetto comunitario, ancor prima che - nella seconda metà degli anni Novanta - si innescasse il meccanismo della tendenziale egemonia tedesca. Per il susseguirsi degli eventi, Tooze non assorbe nella sua ricostruzione e nella sua interpretazione forse a sufficienza la forza disgregatrice dei populismi al governo in Europa, ma sembra attribuire - in un contesto buio ovunque - una consistenza maggiore di quanto non si ritenga alla vecchia Europa, nella sua reazione alla crisi innescatasi nel 2008.
Diverso il profilo interpretativo degli Stati Uniti. Mentre, nel caso dell’Europa, Tooze privilegia il meccanismo politica monetaria-istituzioni, per gli Stati Uniti - fra gli altri campi dissodati - si concentra sul rapporto fra crisi economica e società. E, qui, si percepisce un senso di pessimismo che è basato su una interpretazione differente da quella più invalsa da chi, con lenti europee, osserva gli Stati Uniti. Nella nostra percezione, il meccanismo costruito da Barack Obama - basato sulla rivalutazione della manifattura e sul salvataggio, per esempio, del settore dell’auto - ha sempre esercitato un grande fascino ed è sempre stato giudicato positivamente.
Tooze, invece, sembra manifestare più di una perplessità. La perplessità di fondo - sulla capacità di tenuta di una società sottoposta a un processo di reindustrializzazione condivisa, pur con altri mezzi e con altri stili, da Donald Trump - si riflette per esempio in uno dei passaggi essenziali di questa mitopoietica, il SuperBowl del febbraio 2014, quando Chrysler - tornata in attivo, come General Motors, l’anno prima - trasmette uno spot sulla rinascita sua, di Detroit e dell’America, manifatturiera ma non solo. Scrive Tooze: «Lo spot fu scritto, diretto e interpretato personalmente da Bob Dylan, l’avvizzito bardo dell’America alternativa. Su uno sfondo scuro, degno di un quadro di Hopper, Dylan si lasciava andare a una sorprendente celebrazione del nazionalismo più kitsch e di grosso calibro: Cosa c’e di più americano dell’America? Perché non si può importare l’originale. Non si può imitare il vero stile. Non si può duplicare un’eredita. Perché cio che Detroit ha creato lo ha creato per prima, e ha ispirato... il resto del mondo». Il realismo di Tooze - in fondo trasferibile dalla figura di Bob Dylan alla storia recente e al futuro dell’America e, con essa, dell’Occidente - è ben sintetizzato nell’aggettivo della prima fase: avvizzito.
© Riproduzione riservata