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Le opere e i giorni in bianco e nero di chi scatta per catturare il mondo

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Le opere e i giorni in bianco e nero di chi scatta per catturare il mondo

Quando gli chiedo se pensa che ci sia, e quale sia, lo stile che contraddistingue le sue foto; se, in qualche modo, si riconoscono che sono proprio le sue, così all’impronta, e senza dubbi, Ferdinando Scianna cambia espressione. Mi fissa, con i suoi intensissimi occhi celesti, e la sua sicurezza – tratto forte della sua personalità – sembra, per un attimo, tentennare. E mi rivela che, appena sente qualcuno che dice, a lui, di ritrovare un tocco particolare nelle sue foto, lo “aggredisce”, immediatamente: è curioso, non può trattenersi: «“Ma da cosa si vede che sono mie?” gli chiedo subito», si infervora. Mi racconta che un suo collega della Magnum – la celebre agenzia di fotogiornalismo, leggendaria sia nel mondo dell’immagine che in quella del reporting, e Scianna, su invito di Cartier-Bresson, suo maestro e poi amico, è stato il primo italiano a farne parte – una volta gli ha detto che le sue foto si riconoscono dalla distanza che lui mette fra se stesso e il soggetto. È un complimento? Un fatto oggettivo? Un dato critico? È una semplice impressione? Forse è una dichiarazione di poetica, per interposta persona. E la questione sarebbe davvero fondamentale, almeno per definire lo statuto artistico – indubbio – del lavoro del personaggio che ho di fronte. Infatti, non a caso, ci troviamo in un museo.

A Forlì, per la precisione, al Museo di San Domenico: inaugurata venerdì, la mostra «Ferdinando Scianna. Il viaggio, il racconto, la memoria» (curata da Denis Curti, Paola Bergna e Alberto Bianda e organizzata da Civita), fino al 6 gennaio, è la prima grande retrospettiva che permette un colpo d’occhio generale sulle “opere e i giorni” di questo fotografo che, caso più unico che raro, non è meno bravo con le parole (scritte e dette) che con le immagini. Mi riceve con la sua divisa d’ordinanza – che prevede sempre un gilet leggero da reporter pieno di tasche e zip e la macchina fotografica al collo –, mentre sta terminando l’allestimento: sono circa 200 fotografie, tutte in bianco e nero, stampate in diversi formati. Si parte e si arriva a Bagheria, paese natale, forse la magnifica ossessione, tra le molte, del suo cinquantennale lavoro. Ed è una mostra che richiede allo spettatore una visione partecipata, da vicino, con attenzione e rispetto. «Di solito si trattano le fotografie come se fossero quadri. Ma la fotografia è cosa diversa, va interrogata, io credo, e mostrata in modo differente. Per questo ho sempre amato i libri più delle mostre. Questa è la prima che, a 75 anni, sto cercando di mettere in piedi come la volevo. Un poco racconto, un poco viaggio nello spazio e nel tempo, un poco film, un poco teatro, molto memoria. E il libro che la accompagna ne vuole essere lo specchio». Cosa fondamentale per l’esperienza, Scianna è lì con lo spettatore: con le sue foto, prima di tutto, ma anche con le didascalie perfette, che resteranno nel bel catalogo, mini racconti essenziali (e Scianna, ripeto, è uno scrittore di qualità, molto superiore a gente che campa dichiarando di esserlo, pur non avendo nemmeno la metà della sua stoffa), e persino con la voce, quella delle audioguide: varcata ogni sala, “scatta” il racconto orale che Scianna fa di ciò che si vede mentre si cammina in questo articolato “bosco narrativo”, costruito con le foto in varie modalità di allestimento. «Avrò scattato un milione di foto, in tutto il mondo, ho calcolato. Pubblicate in libro meno di duemila, ma il mio database è di circa 50mila scatti»: certificano la geografia umana e naturale nella quale si è mosso; una serie di ritorni su soggetti (luoghi, oggetti inanimati, donne, dolori, ombre, bestie, specchi, testimonianze di vita difficile, dai malati di Lourdes all’accampamento dei minatori di Kami in Bolivia, dal Mali all’India, tutte sezioni qui antologizzate) che, a posteriori, sono la sua autobiografia pubblica. Eppure Scianna, che ha molto letto, e ha molto scritto, anche su questo giornale, di fotografia (tanto da essere un raffinato teorico) non nasconde, diciamo così, la perplessità, che attraversa oggi l’essenza del suo lavoro, della sua arte. «Mi piace molto che in italiano si dica “faccio” il fotografo piuttosto che “sono” un fotografo. Restituisce alla fotografia il senso artigiano, al quale tengo molto. E poi non so più che cosa voglia dire essere fotografo. Molti che si definiscono tali non le fanno nemmeno più, le foto. Le riproducono da Google Earth o da Google Street o si abbandonano a pratiche statistiche». E continua: «Da oltre due anni si producono ogni giorno più fotografie che nell’intera storia di questa tecnica che è diventata anche espressione. Faccenda invalutabile se non in pseudo statistica e pseudo sociologia. Non mi appassiona. Desertificazione di massa, forse. Come ogni pratica di massa. Per me la cultura comincia al terzo risotto. Dopo il primo puoi dire solo mi piace, non mi piace. Dal secondo compari, dal terzo crei i criteri di valutazione».

Scianna è un siciliano burbero, a prima vista brusco, intimorisce; e mette distanza, è vero. Piazzato, pur non essendo imponente, questa sua voce così rotonda, stentorea, la geometrica cadenza siciliana, questa testa che è una scultura, la barba sempre rasata a due millimetri, che conferisce ieraticità, la torrenziale forza con la quale declama le sue idee, la assertività netta – che qualcuno potrebbe scambiare per prepotenza (ed è invece la chiarissima proposizione dei suoi pensieri) –, l’eleganza dell’eloquio che è forbito, circonvoluto eppure lineare, l’ironia tagliente e immediata che regala nella conversazione (è un brillantissimo battutista e non se ne lascia scappare una), possono certamente intimidire. La sua intelligenza, insomma, scintilla, e sa di averne viste molte. Ma chi parla è un poeta e l’occhio con il quale “vede” è quello di un artista, di un uomo empatico con la realtà: e questo, nelle foto intorno a noi, è lampante. Il fatto è che Ferdinando Scianna crede nella fotografia e questo, semplicemente, gli fa onore.

«Mio nonno era falegname – si accalora –: il suo materiale era il legno. Il mio materiale è l’azzardo. Ci sono fotografi che cercano le foto e fotografi che sono cercati dalle foto. Si possono realizzare fotografie in tutte le circostanze: non posso aspettare la luce giusta, non posso chiedere a un avvenimento di capitare più tardi»: il qui e ora è fondamentale per la sua lettura del reale; eppure quel sottile frammento in cui lo spazio e il tempo sono congelati da uno scatto non possono fare a meno dell’occhio dell’autore che preme sul clic: chi scatta legge il mondo, lo interpreta; in alcuni casi lo crea. «Il mio mondo era quello del reportage giornalistico, del racconto per immagini di storie significative» ricorda, ma poi arriva anche il periodo della moda. «Eravamo in Spagna. L’idea era quella che si dovessero prendere a fare da modelle persone normali. Vedo questa bella ragazza, con una capigliatura e un viso particolare, antico, sembrava mia zia. Le chiediamo se vuole fare lo scatto. Il parrucchiere è dubbioso, ma le rifà l’acconciatura: con i capelli stirati, la riga in mezzo, quando riapparve fummo tutti sorpresi, lei per prima. Ed era mia zia, era una donna della Sicilia della mia infanzia, si era trasformata in un mio ricordo». Questa foto non c’è, tra le 180, ma la Sicilia trabocca dappertutto in parole, opere, omissioni e... immagini.

«La maniera in cui un fotografo legge il mondo attraverso la luce è determinata dalla realtà in cui si è formata la sua coscienza visiva ed esistenziale. C’entra molto il luogo in cui è nato e cresciuto e anche il paesaggio estetico e psicologico che la luce determina». Qui Scianna si spiega meglio: «I fotografi del Nord che fotografano il Sud del mondo producono immagini molto luminose, abbaglianti, apollinee. Negli stessi luoghi, i fotografi del Sud fanno immagini oscure, drammatiche, piene di ombre. Le mie immagini, e non soltanto quelle siciliane, sono spesso molto nere. Io vedo e compongo a partire dall’ombra».

Una galleria di ritratti, intensissima (con le celebri foto di Sciascia, amico di sempre, e Borges), immette nelle spettacolari sale finali: riti e miti, altra ossessione e, quindi, il colpo di teatro. Le foto di Marpessa, una «divinità» bruna, la statuaria modella olandese che con Scianna fu protagonista di una campagna pubblicitaria irripetibile. Sono foto “archetipiche”, scattate in una bollente estate siciliana, nei luoghi e negli ambienti del fotografo. Molto poco moda, moltissimo racconto e viaggio nella memoria. Esattamente il focus della mostra. In una, gigante, che chiude l’esposizione, scattata a Bagheria, appunto, negli occhi magnetici della modella si riflette, minuscolo, il fotografo: un gioco di specchi esistenziale. E poi la foto che comunica la mostra: Marpessa è a Caltagirone, contro un muro scrostato, nera e smorfiosa. Accanto a lei un ragazzino locale mima lo scatto, “gioca” a fotografare. «Ci inseguiva» sorride Scianna, «prendendomi in giro: faceva clic clic con una scatola di fiammiferi. Dissi a Marpessa: “Avanti! Posa per lui”. Lei rispose subito allo stimolo». E in maniera sublime. Ne viene fuori un quadro profetico: il tempo è sospeso, la Sicilia reale ed emozionale è là davanti, in quel ragazzino c’è lo stesso Scianna, in quel gesto il suo destino. Ma di più. C’è l’uomo, c’è una donna irraggiungibile, c’è una terra irredimibile: e c’è un racconto da fare.

Epperò, Scianna è dall’altra parte dell’immagine, dietro un occhio meccanico. In quell’immagine perfetta che lui cattura-costruisce-inventa tutto insieme, non c’è solo la sua storia: c’è, anche, la nostra, c’è la memoria e il futuro, le promesse e le illusioni. C’è, finalmente, la distanza: tra ciò che siamo e chi vorremmo essere, tra la realtà e i sogni, tra la vita e la sua rappresentazione. E c’è luce, e c’è ombra: con le quali, forse, talvolta, quella distanza la si può colmare.

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