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La questione migratoria come sfida identitaria

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La questione migratoria come sfida identitaria

Vediamo come stanno le cose, distinguendo i fatti e la politica.

Cominciamo dai fatti. I numeri dicono che l'immigrazione non è (più) un'emergenza, né in Europa né in Italia. I migranti illegali che hanno attraversato i confini europei sono diminuiti da 1.822.637 (agosto del 2015) a 91.267 (agosto del 2018). I migranti illegali che sono giunti via mare in Italia, considerando il periodo gennaio-agosto, sono diminuiti da 95.200 (2017) a 18.500 (2018) (Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite). Quest'ultima diminuzione è indipendente dalle scelte dell'attuale governo italiano (che è entrato in carica nel giugno scorso).

È il risultato della politica del precedente governo (anche se disconosciuto dal suo principale partito), di un maggiore impegno di alcuni Paesi europei nell'area nord-africana e del dirottamento dei flussi migratori verso Paesi terzi (come la Turchia). Nondimeno, l'immigrazione continua ad essere al centro della preoccupazione dei cittadini europei e italiani. Nell’Ue, secondo i dati della Commissione europea, gli immigrati rappresentano il 7,2 per cento della popolazione ma la percezione pubblica è che essi siano più del doppio (16,7 per cento). In Italia, secondo i dati dell’Istituto Cattaneo, gli immigrati rappresentano il 7 per cento della popolazione ma la percezione pubblica è che essi siano ben il 25 per cento. In politica, la percezione conta (spesso) più della realtà.

Veniamo alla politica. Dietro la distonia cognitiva (tra percezione e realtà) vi sono le eredità del passato (in Italia continuano ad esserci quasi 600.000 immigrati irregolari) ma anche l’azione di imprenditori politici (che hanno trasformato l'immigrazione in un business elettoralmente redditizio). È vero che lo sfruttamento politico del problema ha un suo limite. In Italia, la Lega ha vinto le elezioni del 4 marzo scorso promettendo (tra le altre cose) di “rimandare a casa quei 600.00 irregolari”. Ma poi, giunta al governo, ha dovuto prendere atto che rimpatriare tutti gli immigrati irregolari richiederebbe lo stesso tempo (80 anni) necessario per restituire allo stato i 49 milioni di falsi rimborsi elettorali (di cui si erano appropriati i suoi precedenti leader). Tuttavia, la realtà può essere forzata, se serve a vincere le prossime elezioni.

Per questo motivo, alla drammatizzazione della minaccia migratoria non si può rispondere con la sua trasformazione in un problema di ordinaria politica pubblica. Tra la drammatizzazione e la normalizzazione, va perseguita invece una strategia che riconosca le implicazioni identitarie (e non solo materiali) della sfida migratoria. È necessario riconoscere all’Ue la competenza per intervenire autonomamente nella protezione delle frontiere europee e nella gestione degli immigrati. Allo stesso tempo, però, è necessario che gli stati membri dell’Ue conservino il potere di stabilire i criteri per la loro accettazione. Non basta (come pure è auspicabile) aumentare di 10.000 unità il personale di Frontex oppure (come pure è indispensabile) superare l’Accordo di Dublino.

Occorre istituire una autorità federale per la gestione dell'immigrazione (come proposto, già nel 2017, dal Rapporto della Task Force del CEPS). A Salisburgo, invece, il nostro presidente del Consiglio si è opposto financo al rafforzamento di Frontex, in quanto «il dispiegamento di questi mezzi e uomini significa prefigurare un’invasione della sovranità». Così, l’Italia non vuole affidare all’Ue compiti di gestione dell’immigrazione e, contemporaneamente, denuncia l’Ue per la mancanza di aiuto nei nostri confronti. Un circolo vizioso che alimenta la propaganda, ma allontana la soluzione.

Insomma, se le elezioni si decideranno sulla questione migratoria, allora chi vuole contrastare i partiti sovranisti dovrà mettere in campo una politica che sappia rispondere alle insicurezze identitarie, oltre che materiali, dei cittadini.

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