Forse passerà alla storia come la prova generale della incipiente disintegrazione europea. O forse del suo contrario: il principio della re-integrazione, del ricompattamento dell’Unione dopo il grande shock del divorzio.
A più di due anni dal referendum che decretò la volontà di lasciare dei britannici, a 4 giorni dal disastroso rito dell’incomunicabilità negoziale ribadito al vertice Ue di Salisburgo e a soli 6 mesi dall’uscita del Paese fissata per fine marzo 2019, resta ancora impossibile prevedere come finirà Brexit: se si farà con un accordo, senza accordo o se addirittura non si farà.
La debolezza del primo ministro Theresa May in balia degli estremismi Tory, l’imminenza dei congressi del Labour e dei conservatori, l’economia che non brilla, il disorientamento del Paese dove i “pentiti” sembrano diventare maggioranza e un’ipotesi di nuove elezioni anticipate in novembre non fanno che aggiungere incertezza e confusione a una partita cominciata male e che potrebbe finire molto peggio.
Per tutti: per l’Europa una sconfitta politica senza precedenti e un’amputazione economica e finanziaria pesante con la perdita del terzo Grande del club dopo Germania e Francia. Per la Gran Bretagna una vera e propria catastrofe annunciata: che in fondo spiega perché, dopo mesi e mesi di melina e temporeggiamenti, l’ultima proposta, il cosiddetto piano dei Chequers, punti in sostanza a instaurare una nuova relazione con la Ue secondo il famoso principio “della botte piena e della moglie ubriaca”. Per questo a Salisburgo i 27 leader dell’Unione l’hanno respinto al mittente: inaccettabile.
«La verità è che i britannici sono sempre stati trattati con i guanti, si sono abituati a prendere dall’Europa quello che fa loro comodo ma non il resto, come euro o Schengen. In più, le passate glorie dell’Impero insieme ai retaggi del Commonwealth ne alimentano l’autoreferenzialità e la pretesa di negoziare da pari a pari con la Ue quando oggi il loro Pil ne rappresenta un sesto, in breve i rapporti di forza sono sbilanciati a loro sfavore», ricorda un diplomatico nel tentativo di spiegare l’incomprensibile irrazionalità della posizione britannica. Che tra l’altro al tavolo dei negoziati punta sul solito “divide et impera” tra i 27 ma questa volta, o almeno finora, ha sbagliato anche la scommessa. Senza trovare alleati nemmeno tra i tradizionali sodali, cioè Paesi liberisti come Olanda, Belgio e gli scandinavi. E la stessa Germania.
All’osso l’obiettivo del Governo May sarebbe quello di mantenere unione doganale e mercato unico solo per i prodotti agricoli e industriali. Non per capitali e servizi. E men che meno per la libera circolazione delle persone. Rinviando la soluzione del problema irlandese per non mettere a rischio l’unità della Gran Bretagna. L’Europa risponde «no», a difesa dell’integrità del mercato unico che resta un suo interesse vitale. E insiste che sono due le opzioni possibili per arrivare a un buon divorzio: o Londra sceglie il modello norvegese, cioè quello di un Paese che pur restando fuori dalla Ue rispetta tutte le regole del mercato unico e versa la sua quota nel bilancio Ue, oppure quello canadese, un Paese terzo a tutti gli effetti che ha stipulato con Bruxelles un accordo di libero scambio.
«I britannici devono decidere che cosa vogliono privilegiare: se la ripresa del controllo nazionale a tutto tondo o la carta dell’integrazione europea, ovviamente non a macchia di leopardo. Non possono avere entrambe, anche se sarebbe molto comodo per loro», spiega un negoziatore.
L’Europa teme la nascita di una nuova Singapore sulle rive del Tamigi, a un passo dalle sue frontiere: non può impedirla ma non intende favorirla con un atteggiamento accomodante sul rispetto delle regole del mercato unico. Che non si ferma alle 4 libertà fondamentali di circolazione (merci, capitali, servizi e persone) ma si regge su un ampio corpus legis che include, tra le altre, norme su concorrenza e aiuti di Stato, standard sociali e ambientali etc sotto la giurisdizione e il controllo della Corte di Giustizia Ue.
Concedere alla May di far circolare le merci britanniche liberamente nel mercato unico svincolandole da tutti gli obblighi di contorno, a cui invece devono attenersi le industrie concorrenti Ue, significherebbe di fatto regalare alla Gran Bretagna la possibilità di diventare un grande hub di produzione e/o assemblaggio per americani, cinesi o qualunque altro Paese terzo che avrebbe il vantaggio di far entrare i prodotti finiti sul mercato europeo senza barriere da superare né dazi da pagare. Non sarebbe un buon servizio all’industria né alla tenuta del mercato interno.
Si sa da sempre che i britannici non amano gli standard sociali e ambientali del continente come in genere le sue troppe regole. Si sa anche che, tra quelle Ue e Usa, preferiscono le seconde, in genere più morbide, soprattutto nei servizi finanziari dove vogliono mano libera per sfruttare al meglio il loro know how combinato a un accesso più facile al credito. Anche qui, dunque, rischio di concorrenza spericolata: l’Europa non vuole e non può farsi male da sola. E questo la dice lunga sul perché sul negoziato Brexit si è rotta la storica alleanza tra britannici e Nord Europa. Se si aggiunge che, per ritorsione in caso di non accordo, Londra potrebbe decidere di non mantenere i suoi impegni con il bilancio Ue (salterebbe un contributo netto di 40-45 miliardi), si capisce come mai Londra non trovi solidarietà neanche a Est.
Finirà in un muro contro muro? Il rischio non è peregrino. Si attende il nuovo vertice Ue in ottobre. L’accordo sarebbe nell'interesse comune. Ma a volte le tresche della politica boicottano il buon senso. Brexit insegna.
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