Del lavoro nero non se ne sente più parlare in politica. Eppure gli ultimi dati Istat disponibili ci dicono che il lavoro irregolare ha generato un valore aggiunto che è cresciuto dai 71,5 miliardi del 2012 ai 77,4 del 2015. È anche aumentato il tasso di lavoratori irregolari (al 15,6% nel 2015). Se ne è parlato quando è stato prospettato un lavoro nero per quanti ricadranno nelle restrizioni volute per i contratti a termine. Eppure, tra i gap (di genere, generazionali, territoriali) di cui soffre il nostro Paese, economia sommersa e lavoro nero hanno un posto di primo piano.
Sono indicatori di ritardo e di squilibrio socioeconomico di lunga data, a seguito di uno sviluppo del Paese tanto rapido
quanto tardivo rispetto a Regno Unito, Francia e Germania. Ha lasciato dietro di sé fratture socioeconomiche prodotte dagli
strappi con cui si è manifestato e dalle resistenze socioculturali dei territori, mai seriamente affrontate dalla politica,
almeno negli ultimi 40 anni. Oltretutto, in presenza di riduzioni molecolari della disoccupazione giovanile, sarebbe opportuna
qualche attenzione in più sul “sommerso”, in Italia a livelli record. Soprattutto, per mettere meglio a fuoco la questione
della precarietà del lavoro, al cospetto della distinzione tra lavoro flessibile, da apprezzare, e lavoro nero, da condannare;
ma anche per accertare se esista sovrapposizione/concorrenzialità tra i circa 4 milioni di lavoranti in nero, da un canto,
e, dall’altro, i 3 milioni di disoccupati, più 2 milioni tra inattivi scoraggiati e occupati part-time che lavorano meno di
quanto vorrebbero.
Tutto il lavoro nero è economia sommersa, ma la seconda non è coincide con il primo, che ne è solo un capitolo. Il lavoro nero dà luogo, secondo l’Istat al 5,2% del valore aggiunto nazionale. Tuttavia, il capitolo “sotto-dichiarazioni” raggiunge il 6.3% del valore aggiunto e il terzo capitolo - attività illegali e criminali - chiude nel peggiore dei modi il libro sull’economia “non osservata” dell’Istat. Sebbene siano capitoli distinti, è noto che esiste una parentela tra essi, con pericolose complementarietà reciproche. L’intero arcipelago vale poco meno di 210mld di euro annui e provoca un’evasione fiscale e contributiva di circa 150mld di euro.
Secondo la Commissione europea, solo l’evasione dell’IVA ammonta a 35mld, la più alta nella Ue (2016). Uno studio del CSC,
pubblicato in piena crisi economica, evidenziava inoltre il carattere anticiclico dell’economia sommersa che in quel periodo
raggiunse picchi ufficiali del 20% del PIL, con la conseguenza che la pressione fiscale reale sulle famiglie e imprese che
pagano le tasse era aumentata di oltre 10 punti in più rispetto a quella ufficiale. In aggiunta, l’Istat sembra sottostimare
il sommerso rispetto al FMI (almeno +7 punti per l’Italia) e a Friedrich Schneider, che ha passato una vita a studiare la
shadow economy.
Il sommerso è come un sistema passante tra lavoro informale e formale tanto che in Italia il lavoro nero ha due grandi serbatoi
da cui attingere. Il primo riguarda l’ampia platea di quanti non hanno un’occupazione. Disoccupati, lavoratori in CIG, pensionati,
casalinghe, studenti: milioni di potenziali lavoratori in nero, anche a tempo pieno. Il secondo serbatoio riguarda quanti
hanno già un’occupazione alle dipendenze e vogliono integrare reddito svolgendo un secondo lavoro. Che, in molti casi, è esplicitamente
vietato, come nella PA.
Consistenti differenze nella stima dell’entità dell’economia sommersa possono indurre diagnosi e politiche sbagliate, soprattutto
se si trascura che una parte del lavoro nero nasce targato come tale (in particolare quello dei bioccupati). Questo tipo di
sommerso è difficilmente trasformabile in nuova occupazione formale quando richiede competenze specifiche. Tuttavia - con
una visione meno restrittiva dei voucher - in gran parte sarebbe potuto emergere come lavoro formale e per quello che è: intermittente,
saltuario, sperimentale. Le politiche tentate in passato per una sua “emersione” non hanno dato i frutti sperati e anche la
nuova legislazione giuslavorista non presenta risultati certi al proposito.
L’economia sommersa segnala uno scollamento tra economia e istituzioni, difficile da saldare con politiche di diretto contrasto
al lavoro nero. Il problema è maggiore là dove le istituzioni sono meno organizzate e recettive. Se la nostra scuola funzionasse,
il florido mercato delle ripetizioni potrebbe essere eliminato con un’organizzazione più efficiente e inclusiva o sottratto
agli insegnanti bioccupati per convertirlo in lavoro per giovani neolaureati. Ragionamento analogo anche per l’assistenza
agli anziani e ai soggetti non autosufficienti, attività che danno lavoro a un esercito di badanti (quasi il doppio di tutti
gli occupati nella sanità) con ampie sacche di lavoro in nero. Si potrebbero fare molti altri esempi per attestare che la
carenza di razionalità organizzativa (amministrativa e imprenditoriale) è all’origine del lavoro nero, soprattutto nei servizi
(oltre il 35% il tasso di lavoro “irregolare”).
Per gli economisti, cleavages come un consistente sommerso, sono manifestazioni inevitabili delle mancanze organizzative-imprenditoriali
in paesi second comers come l’Italia. Non a caso, fratture socioeconomiche, come sommerso, corruzione, sacche territoriali
di povertà, ecc., sono ancora più marcate nei paesi a più recente industrializzazione come India, Cina, Brasile e Russia.
Questa spiegazione dell’esuberante incidenza dell’economia sommersa e del lavoro nero in alcuni contesti piuttosto che in
altri, suggerisce due riflessioni che possono essere forse di aiuto.
Innanzitutto, va preso atto che parte dell’economia sommersa e del lavoro nero è “frizionale” e all’incirca ineliminabile.
Lo suggerisce la sua persistenza in paesi europei first comers come Inghilterra o Germania, dove rimane un decimo o poco più
del PIL. L’economia sommersa appare nelle sue dimensioni frizionali in Svizzera, dove il fenomeno non va oltre il 6% del PiL
(mentre in Italia, nel 2017 è al 19,8%). Questo zoccolo duro dell’economia sommersa che i paesi più avanzati manifestano,
attesta che essa, al pari del lavoro nero, non è una manifestazione del premoderno, ma è piuttosto il segnale dell’esistenza
di una complessa miscellanea di strategie degli attori sociali, con le quali spesso prendono corpo nuove differenziazioni
delle attività e s’iniziano passaggi a nuovi assetti organizzativi, produttivi e lavorativi, che con gradualità andranno a
formalizzarsi in futuro, se avranno successo. Questo “zoccolo duro” frizionale ha negli ultimi decenni debordato anche perché
il lavoro “irregolare” è in molti casi come un cavallo di Troia che serve per conquistare nuove attività alla logica di mercato,
comprese quelle tradizionali basate su relazioni di reciprocità (lavori domestici, di assistenza, di manutenzione, ecc.).
In secondo luogo, i processi di modernizzazione e razionalizzazione non hanno eliminato il sommerso neppure nei paesi più sviluppati, perché essi si affermano per stratificazione – e non per completa sostituzione - dei meccanismi di regolazione socioeconomica. La postmodernità è un edificio i cui piani superiori sono guidati da superstrutture organizzative, economiche e finanziarie, dal fattore organizzativo e imprenditoriale, mentre, nei piani bassi, c’è la vita materiale e informale, le relazioni di scambio e di reciprocità tra gli individui, che mutano con urti e conversazioni tra tradizione e innovazione. In questo campo di tensione, fenomeni valutati negativamente a livello macro, si manifestano anche per una logica “stringente” degli attori. Le famiglie possono vedere nel lavoro nero un’opportunità per le risorse di lavoro di cui dispongono e magari un modo per evitare situazioni di anomia sociale tra i loro membri, soprattutto se disoccupati di lunga durata o giovani neet. Datori di lavoro e lavoratori possono ottenere dei vantaggi dal sommerso (evasione fiscale, a danno della collettività) ed evitare l’imperfezione dei mercati regolati che pongono barriere e vincoli per l’accesso regolare al lavoro.
Non sarebbe quindi una logica economico-sistemica a razionalizzare la società e le sue espressioni formali e informali. Piuttosto
sarebbero vincoli e risorse della società a incanalare lo sviluppo economico entro forme specifiche (le diverse Italie) e
particolari (un ampio mercato sommerso). In tutti i paesi sudeuropei, l’impatto della regolazione politico-amministrativa
dello Stato e dell’economia formale di mercato ha lasciato sul campo contraddizioni, mutamenti parziali o dimezzati e anche
un sommerso consistente, diversamente dai paesi continentali (tab.2).
In conclusione, le politiche di contrasto al sommerso hanno chance limitate di cambiare la situazione, ma hanno diverse frecce
a disposizione: controlli, punizioni, cashless economy, incentivi all’emersione o con istituti tipo i voucher che però sono
visti come conduttori di precarietà. Forse, però, prima occorrerebbe una risposta chiara alla domanda: perché gran parte del
lavoro nero nasce già targato come tale? Per poi chiedersi se sia meglio per lo Stato italiano annoverare un tasso di lavoro
irregolare tra i più elevati tra i maggiori paesi Ue o dover fare i conti con maggior lavoro regolare precario qualora si
decidesse un contrasto più attento e selettivo al lavoro irregolare.
È un altro fronte nel raggio di governo del ministro Di Maio. La vera partita contro il sommerso – come per le altre grandi fratture “da ritardo”- non si gioca in campo strettamente economico, ma in quello etico-politico, che annovera capitoli, come il rafforzamento di una cultura organizzativa e tecnologica imprenditoriale, la tutela del lavoro, l’equità fiscale, ecc.. Se si vuole cambiare.
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