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L’ineguaglianza di opportunità acuisce il divario fra i redditi

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L’ineguaglianza di opportunità acuisce il divario fra i redditi

Dietro al dibattito sul futuro dell’Europa che con ogni probabilità segnerà la prossima campagna elettorale in vista del rinnovo del Parlamento europeo si nascondono tendenze di fondo che stanno drammaticamente spaccando le società europee: il graduale assottigliamento della classe media e il forte aumento delle ineguaglianze sociali. Sono due propensioni che stanno rafforzando i partiti più estremisti. Nessun Paese ne è immune, tanto meno l’Italia dove i livelli di ineguaglianza dei redditi sono ormai vicini a quelli latino-americani.

La Banca mondiale pubblica oggi un rapporto (Toward a New Social Contract) nel quale ha il merito, al di là di proporre possibili soluzioni, di fare una analisi storica della situazione. «Il divario tra i redditi si è accentuato negli ultimi decenni. Fin dagli anni 90, per scelte politiche, e poi successivamente con la crisi scoppiata nel 2008», spiega da Washington Maurizio Bussolo, economista dell’istituzione internazionale responsabile dell’analisi economica dell’Europa e dell’Asia centrale. Tra i Paesi europei l’Italia è uno di quelli che più ha subìto questa tendenza.

«Negli anni 30 il livello di ineguaglianza tra i redditi in Italia era vicino a quello del Giappone, ossia relativamente basso. Oggi, dopo appena due generazioni e mezzo, il livello è aumentato di molto ed è simile a quello registrato in Cile», nota ancora l’economista della Banca mondiale. Dagli anni 50 in poi le ineguaglianze di reddito sono cresciute in molti Paesi dell’Europa occidentale, ma assai meno in Francia e in Germania che in Italia. «Nel 1995 in Italia i contratti a tempo determinato o parziale erano l’11% del totale, nel 2013 erano il 28%. Tra i più giovani, la quota è salita dal 21 al 65%», precisa Maurizio Bussolo.

A preoccupare sono soprattutto le ragioni del divario tra i redditi. La Banca mondiale parla di ineguaglianza di opportunità. Troppo spesso il futuro di una persona in Italia è legato a circostanze indipendenti dal merito o dalle capacità personali: valgono più che altro il background famigliare, il luogo di nascita, e anche il sesso.

In altre parole i legami sociali sono più importanti degli studi, la fedeltà di clan è più premiante della preparazione professionale.

Oggi le pratiche clientelari e familistiche che per decenni hanno assicurato una qualche forma di redistribuzione del reddito, pur poco trasparente e molto inefficiente, sono messe alle strette dalla crescente concorrenza internazionale e da una grave crisi economica che ha ridotto le capacità finanziarie del Paese e delle diverse corporazioni.

Peraltro, come detto, la tendenza è tutt’altro che recente: secondo l’analisi della Banca mondiale, il divario nell’ineguaglianza dei redditi tra l’Italia e i suoi principali partner europei è iniziato a crescere fin dagli anni 50 (quando l’euro era lontano dal diventare realtà).

Tre sono le piste proposte dell’istituzione internazionale per evitare che la situazione sociale degeneri, fino a conseguenze politiche radicali.

La Banca mondiale, che non prende posizione nel dibattito italiano sul reddito di cittadinanza, suggerisce l’adozione nei Paesi europei di flessibilità del lavoro associata a una protezione simile per tutti, al di là dell’età, del tipo di occupazione e del tipo di contratto; l’universalità nei servizi di welfare; e l’espansione della base imponibile con la riduzione dell’imposizione sul reddito da lavoro e l’aumento di quella sul reddito da capitale.

La Banca mondiale fa notare comunque che dei 30 Paesi al mondo dove le ineguaglianze sono minori, 23 sono Paesi europei o centro-asiatici. Ciò detto, la situazione italiana è resa particolarmente difficile dal fatto che il Paese è in ritardo nell’adattarsi alla globalizzazione e alla digitalizzazione. Una ricerca del Pew Research Center di Washington ha rivelato a metà settembre che il 75% degli italiani teme l’automazione, tale da rendere più difficile trovare un lavoro, mentre il 63% ritiene che la stessa automazione provocherà un ulteriore divario tra ricchi e poveri.

In un recente articolo per Project Syndicate, gli economisti Laura Tyson e Lenny Mendonca sottolineano come la sfida ormai non sia sulla quantità, ma sulla qualità dei posti di lavoro. «Il livello di ineguaglianza di opportunità non è sostenibile», riassume l’economista Bussolo, riferendosi alla situazione in Europa. «Tutti i partner sociali di un dato Paese devono sedersi intorno a un tavolo e decidere che tipo di società vogliono».

Del lavoro nero non se ne sente più parlare in politica. Eppure gli ultimi dati Istat disponibili ci dicono che il lavoro irregolare ha generato un valore aggiunto che è cresciuto dai 71,5 miliardi del 2012 ai 77,4 del 2015. E' anche aumentato il tasso di lavoratori irregolari (al 15,6% nel 2015). Se ne è parlato quando è stato prospettato un lavoro nero per quanti ricadranno nelle restrizioni volute per i contratti a termine. Eppure, tra i gap (di genere, generazionali, territoriali) di cui soffre il nostro Paese, economia sommersa e lavoro nero hanno un posto di primo piano. Sono indicatori di ritardo e di squilibrio socioeconomico di lunga data, a seguito di uno sviluppo del Paese tanto rapido quanto tardivo rispetto a Inghilterra, Francia e Germania. Ha lasciato dietro di sé fratture socioeconomiche prodotte dagli strappi con cui si è manifestato e dalle resistenze socioculturali dei territori, mai seriamente affrontate dalla politica, almeno negli ultimi 40 anni. Oltretutto, in presenza di riduzioni molecolari della disoccupazione giovanile, sarebbe opportuna qualche attenzione in più sul “sommerso”, in Italia a livelli record. Soprattutto, per mettere meglio a fuoco la questione della precarietà del lavoro, al cospetto della distinzione tra lavoro flessibile, da apprezzare, e lavoro nero, da condannare; ma anche per accertare se esista sovrapposizione/concorrenzialità tra i circa 4 milioni di lavoranti in nero, da un canto, e, dall'altro, i 3 milioni di disoccupati, più 2 milioni tra inattivi scoraggiati e occupati part-time che lavorano meno di quanto vorrebbero.

Tutto il lavoro nero è economia sommersa, ma la seconda non è coincide con il primo, che ne è solo un capitolo. Il lavoro nero dà luogo, secondo l'Istat al 5,2% del valore aggiunto nazionale (tab.1). Tuttavia, il capitolo “sotto-dichiarazioni” raggiunge il 6.3% del valore aggiunto e il terzo capitolo - attività illegali e criminali - chiude nel peggiore dei modi il libro sull'economia “non osservata” dell'Istat. Sebbene siano capitoli distinti, è noto che esiste una parentela tra essi, con pericolose complementarietà reciproche. L'intero arcipelago vale poco meno di 210mld di euro annui e provoca un'evasione fiscale e contributiva di circa 150mld di euro. Secondo la Commissione europea, solo l'evasione dell'IVA ammonta a 35mld, la più alta nella Ue (2016). Uno studio del CSC, pubblicato in piena crisi economica, evidenziava inoltre il carattere anticiclico dell'economia sommersa che in quel periodo raggiunse picchi ufficiali del 20% del PIL, con la conseguenza che la pressione fiscale reale sulle famiglie e imprese che pagano le tasse era aumentata di oltre 10 punti in più rispetto a quella ufficiale. In aggiunta, l'Istat sembra sottostimare il sommerso rispetto al FMI (almeno +7 punti per l'Italia) e a Friedrich Schneider, che ha passato una vita a studiare la shadow economy ( tab.2).

Il sommerso è come un sistema passante tra lavoro informale e formale tanto che in Italia il lavoro nero ha due grandi serbatoi da cui attingere. Il primo riguarda l'ampia platea di quanti non hanno un'occupazione. Disoccupati, lavoratori in CIG, pensionati, casalinghe, studenti: milioni di potenziali lavoratori in nero, anche a tempo pieno. Il secondo serbatoio riguarda quanti hanno già un'occupazione alle dipendenze e vogliono integrare reddito svolgendo un secondo lavoro. Che, in molti casi, è esplicitamente vietato, come nella PA.

Consistenti differenze nella stima dell'entità dell'economia sommersa possono indurre diagnosi e politiche sbagliate, soprattutto se si trascura che una parte del lavoro nero nasce targato come tale (in particolare quello dei bioccupati). Questo tipo di sommerso è difficilmente trasformabile in nuova occupazione formale quando richiede competenze specifiche. Tuttavia - con una visione meno restrittiva dei voucher - in gran parte sarebbe potuto emergere come lavoro formale e per quello che è: intermittente, saltuario, sperimentale. Le politiche tentate in passato per una sua “emersione” non hanno dato i frutti sperati e anche la nuova legislazione giuslavorista non presenta risultati certi al proposito.

L'economia sommersa segnala uno scollamento tra economia e istituzioni, difficile da saldare con politiche di diretto contrasto al lavoro nero. Il problema è maggiore là dove le istituzioni sono meno organizzate e recettive. Se la nostra scuola funzionasse, il florido mercato delle ripetizioni potrebbe essere eliminato con un'organizzazione più efficiente e inclusiva o sottratto agli insegnanti bioccupati per convertirlo in lavoro per giovani neolaureati. Ragionamento analogo anche per l'assistenza agli anziani e ai soggetti non autosufficienti, attività che danno lavoro a un esercito di badanti (quasi il doppio di tutti gli occupati nella sanità) con ampie sacche di lavoro in nero. Si potrebbero fare molti altri esempi per attestare che la carenza di razionalità organizzativa (amministrativa e imprenditoriale) è all'origine del lavoro nero, soprattutto nei servizi (oltre il 35% il tasso di lavoro “irregolare”).

Per gli economisti, cleavages come un consistente sommerso, sono manifestazioni inevitabili delle mancanze organizzative-imprenditoriali in paesi second comers come l'Italia. Non a caso, fratture socioeconomiche, come sommerso, corruzione, sacche territoriali di povertà, ecc., sono ancora più marcate nei paesi a più recente industrializzazione come India, Cina, Brasile e Russia.

Questa spiegazione dell'esuberante incidenza dell'economia sommersa e del lavoro nero in alcuni contesti piuttosto che in altri, suggerisce due riflessioni che possono essere forse di aiuto.

Innanzitutto, va preso atto che parte dell'economia sommersa e del lavoro nero è “frizionale” e all'incirca ineliminabile. Lo suggerisce la sua persistenza in paesi europei first comers come Inghilterra o Germania, dove rimane un decimo o poco più del PIL. L'economia sommersa appare nelle sue dimensioni frizionali in Svizzera, dove il fenomeno non va oltre il 6% del PiL (mentre in Italia, nel 2017 è al 19,8%). Questo zoccolo duro dell'economia sommersa che i paesi più avanzati manifestano, attesta che essa, al pari del lavoro nero, non è una manifestazione del premoderno, ma è piuttosto il segnale dell'esistenza di una complessa miscellanea di strategie degli attori sociali, con le quali spesso prendono corpo nuove differenziazioni delle attività e s'iniziano passaggi a nuovi assetti organizzativi, produttivi e lavorativi, che con gradualità andranno a formalizzarsi in futuro, se avranno successo. Questo “zoccolo duro” frizionale ha negli ultimi decenni debordato anche perché il lavoro “irregolare” è in molti casi come un cavallo di Troia che serve per conquistare nuove attività alla logica di mercato, comprese quelle tradizionali basate su relazioni di reciprocità (lavori domestici, di assistenza, di manutenzione, ecc.).

In secondo luogo, i processi di modernizzazione e razionalizzazione non hanno eliminato il sommerso neppure nei paesi più sviluppati, perché essi si affermano per stratificazione – e non per completa sostituzione - dei meccanismi di regolazione socioeconomica. La postmodernità è un edificio i cui piani superiori sono guidati da superstrutture organizzative, economiche e finanziarie, dal fattore organizzativo e imprenditoriale, mentre, nei piani bassi, c'è la vita materiale e informale, le relazioni di scambio e di reciprocità tra gli individui, che mutano con urti e conversazioni tra tradizione e innovazione. In questo campo di tensione, fenomeni valutati negativamente a livello macro, si manifestano anche per una logica “stringente” degli attori. Le famiglie possono vedere nel lavoro nero un'opportunità per le risorse di lavoro di cui dispongono e magari un modo per evitare situazioni di anomia sociale tra i loro membri, soprattutto se disoccupati di lunga durata o giovani neet. Datori di lavoro e lavoratori possono ottenere dei vantaggi dal sommerso (evasione fiscale, a danno della collettività) ed evitare l'imperfezione dei mercati regolati che pongono barriere e vincoli per l'accesso regolare al lavoro. Non sarebbe quindi una logica economico-sistemica a razionalizzare la società e le sue espressioni formali e informali. Piuttosto sarebbero vincoli e risorse della società a incanalare lo sviluppo economico entro forme specifiche (le diverse Italie) e particolari (un ampio mercato sommerso). In tutti i paesi sudeuropei, l'impatto della regolazione politico-amministrativa dello Stato e dell'economia formale di mercato ha lasciato sul campo contraddizioni, mutamenti parziali o dimezzati e anche un sommerso consistente, diversamente dai paesi continentali (tab.2).

In conclusione, le politiche di contrasto al sommerso hanno chance limitate di cambiare la situazione, ma hanno diverse frecce a disposizione: controlli, punizioni, cashless economy, incentivi all'emersione o con istituti tipo i voucher che però sono visti come conduttori di precarietà. Forse, però, prima occorrerebbe una risposta chiara alla domanda: perché gran parte del lavoro nero nasce già targato come tale? Per poi chiedersi se sia meglio per lo Stato italiano annoverare un tasso di lavoro irregolare tra i più elevati tra i maggiori paesi Ue o dover fare i conti con maggior lavoro regolare precario qualora si decidesse un contrasto più attento e selettivo al lavoro irregolare.

E' un altro fronte nel raggio di governo del ministro Di Maio. La vera partita contro il sommerso – come per le altre grandi fratture “da ritardo”- non si gioca in campo strettamente economico, ma in quello etico-politico, che annovera capitoli, come il rafforzamento di una cultura organizzativa e tecnologica imprenditoriale, la tutela del lavoro, l'equità fiscale, ecc.. Se si vuole cambiare.

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