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Big Tech, perché i geni di Silicon Valley non amano dirigere le loro aziende

Il ceo di Salesforce, Marc Benioff con Christine Lagarde, direttore generale del Fmi
Il ceo di Salesforce, Marc Benioff con Christine Lagarde, direttore generale del Fmi

Negli Stati Uniti gli insegnanti sono pagati talmente poco che uno su cinque ha un doppio lavoro. Le aziende della Silicon Valley come Uber e Airbnb soddisfano e alimentano questa domanda di reddito extra. Meno ovvio, però, è perché i leader di quel medesimo settore tecnologico sentano l'esigenza di una “fonte di reddito collaterale” per sé.

Di sicuro, non è una questione di soldi. Gli insegnanti, tutto sommato, cercano di integrare uno stipendio che può aggirarsi sui trentamila dollari all’anno. Marc Benioff, amministratore delegato di Salesforce, guadagna quella stessa cifra in un paio di giorni, senza considerare la fetta di circa cinque miliardi di dollari che gli spetta dall’azienda di software che ha creato e che ne incassa 115.

Il fatto, però, è che Benioff ha molte altre fonti di reddito aggiuntive. Ha appena acquistato la rivista Time per 190 milioni di dollari. Aspira a fare politica globale e locale, presiede la propaggine tecnologica del World Economic Forum e si batte per gli homeless di San Francisco. Al tempo stesso, dirige un’azienda che dà lavoro a 33 mila persone e aumenta il personale dipendente al ritmo del 20 per cento l'anno, il tutto consumando miliardi di dollari in varie acquisizioni e cercando di mantenere spettacolari livelli di aumento delle vendite. Per la maggior parte dei dirigenti di tutto il mondo, gestire quell'azienda sarebbe già un incarico logorante a tempo pieno. Eppure, l'atteggiamento odierno in ambito tecnologico sembra essere quello di non essere disposti a farsi legare le mani.

Larry Page, amministratore delegato di Alphabet, società madre di Google, trascorre sempre più tempo nella sua isola privata ai Caraibi, ha fatto sapere Bloomberg questo mese. Page è stato clamorosamente assente a un'udienza del Congresso, lasciando vuota in modo poco onorevole una poltrona, e si dice che faccia di tutto per sottrarsi alle mansioni manageriali. Tra le sue attività a latere c'è la gestione di un'intera flotta di società di automobili volanti. Insomma, sembra proprio che ritenga noioso il motore di ricerca che ha cofondato e che ha cambiato il mondo e fatto la sua fortuna.

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Non è questa l'accusa indirizzata a Elon Musk, il cui problema principale sembra essere il fatto che delega poco. Nel 2012, quando un investitore gli ha chiesto come facesse a dirigere contemporaneamente Tesla, la casa automobilistica pioniera nel settore delle macchine elettriche, e SpaceX, i cui razzi sparano satelliti in orbita, ha spiegato: «Trascorro molto tempo sulla posta elettronica… è molto utile per gestire le due aziende in contemporanea. Oltretutto, quando mi trovo con i miei figli e non esigono la mia attenzione, gestisco la posta elettronica anche se sono con loro. Più o meno è così che funziona».

Quanto a me, trascorro molto tempo occupandomi della posta elettronica, soprattutto quando i miei figli avrebbero bisogno della mia attenzione, e anche così faccio fatica a svolgere il mio lavoro. Ma c'è anche dell'altro. Musk sarà capace benissimo – come si compiace di raccontare con falsa modestia – di dormire talvolta sul pavimento della fabbrica, ma di sicuro trova anche il tempo per diatribe lunghe e spossanti su Twitter e stravaganti tentativi di salvare i bambini dalle spelonche.

L'amministratore delegato di Twitter, Jack Dorsey, non soltanto rende possibile ai Ceo concedersi queste distrazioni, ma è bravo a praticare egli stesso questa forma di svago: oltre a dirigere la sua azienda di social media valutata 22 miliardi di dollari, presiede anche Square, una società di pagamenti digitali da 35 miliardi di dollari.

Questa schiera di imprenditori tecnologici, in pratica, si è sottratta al Ritalin somministrato in abbondanza a un'intera generazione di bambini americani per contrastarne il disturbo da deficit di attenzione. Probabilmente, però, dobbiamo ritenerci fortunati se sono così irrequieti: gli slanci dell'immaginazione sono il marchio caratteristico di questi geni creativi, che hanno ricostruito quasi da zero il settore tecnologico dopo il crollo delle dotcom. Quando si tratta, però, di dirigere i colossi che hanno fondato, sembrano perdere interesse.

Non è stato sempre così. Andy Grove, fondatore di Intel, amava a tal punto dirigere aziende che la sua fonte di reddito collaterale era scrivere libri sull’argomento. Non soltanto ha rivoluzionato il mondo dei semiconduttori, ma è diventato anche padrone dell'arte della valutazione delle prestazioni. Nella prefazione all'edizione economica del manuale di Grove del 1983 “High Output Management”, Ben Horowitz, condirettore della società di venture capital Andreessen Horowitz, scrive che lui e la sua generazione di fondatori di aziende tecnologiche avrebbero divorato quel libro per poi passarlo in giro. «Siamo rimasti sorpresi dal fatto che il Ceo di Intel si sia preso la briga e il tempo di insegnarci le competenze indispensabili nel mondo dell'imprenditoria e di spiegarci come dirigere».

Grazie alle significative partecipazioni azionarie di cui godono, spesso consolidate da diritti di voto eccezionali, i Ceo del settore tecnologico possono scegliere in che modo gestire le loro aziende: da vicino, da lontano, con le mani in pasta sempre e ovunque. Da fuori, la loro arroganza e i loro sogni di spazio sono divertenti nel peggiore dei casi, ispiranti nel migliore. Qualora, poi, dovessero essere assorbiti dalla loro attività nel mondo della carta stampata o decollare per un viaggio di sola andata su Marte o non fare più ritorno dalla loro isola privata, saremmo noi a rimetterci.

Per gli investitori e i dipendenti, invece, questa attenzione a metà può essere fonte di preoccupazione: non è bello avere la sensazione di far parte dell'attività part time che annoia il capo, e sapere che lui si procura qualche brivido in attività collaterali che gli procurano, perdipiù, redditi aggiuntivi.

Traduzione di Anna Bissanti
© 2018 The Financial Times Ltd. All rights reserved

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